UNA CRITICA D’ARTE CON TANTE IDEE PER IL FUTURO
TESTIMONIANZE
PER MARIA CAMPITELLI
Coglieva sempre la scommessa culturale che porta con sé ogni gesto artistico
di Francesco Carbone
Anni ’90 a Trieste. Piero e io eravamo due artisti per modo di dire. Piero è Pierpaolo Ciana, che poi è diventato il vicepresidente del Gruppo 78 fondato e sempre diretto da Maria Campitelli, morta a 93 anni pochi giorni fa. Avevamo uno studio piuttosto grande e un po’ scalcinato in una traversa di viale XX settembre: “la soffitta”. Era all’ultimo piano di un edificio del primo Novecento, aveva il tetto spiovente e ogni tanto bisognava lasciare i secchi nei punti giusti perché pioveva dentro. Molto Bohème di Puccini: senza riscaldamento, senza bagno, le finestrelle degli abbaini d’inverno lasciavano spifferare la bora, che ogni tanto il vento spalancava permettendo ai piccioni di entrare. D’estate in compenso faceva un caldo che toglieva il respiro. Dipingevamo e disegnavamo là. La soffitta aveva tre stanze, c’era spazio in abbondanza per tutt’e due.
La prima volta che Maria Campitelli venne a vedere i nostri lavori fu grazie alla raccomandazione di un’amica comune. Non ci furono preamboli, nessuna conversazione per almeno un po’ intuirsi. Del resto la Campitelli, come la chiamavamo, la prima cosa che diceva sempre era che era di corsa, che subito dopo avrebbe avuto un altro impegno e poi un altro ancora: bisognava sempre spicciarsi. La Campitelli era sempre come il Bianconiglio di Alice, anche se aveva i capelli corti scuri e un po’ ricordava Franca Valeri.
Cominciammo subito a far vedere i lavori. Non ricordo chi li mostrò per primo. Ricordo il silenzio: dopo aver lasciato il cartone esposto qualche secondo, si passava al prossimo. La Campitelli era alle spalle; in qualche modo s’intuiva il suo sguardo, il tempo sufficiente perché se ne facesse un giudizio e così in silenzio si andava avanti. Mai una parola. Almeno a me, a un certo punto sembrava che quanto le andassi mostrando diventasse sempre più brutto. Nella soffitta si sentiva qualcosa allo stesso tempo di freddo e d’intenso.
«Potremmo fare una prima mostra alla Fine Art Room». Credo che sia stata la frase più lunga che la Campitelli disse quel giorno; poi si scusò per essere di fretta, anzi già in ritardo, e svanì. La Fine Art Room era una piccola galleria a Trieste in via della Guardia. Avevamo dunque una mostra, la prima mostra, presentata dalla Campitelli! Il patto era che, dal momento che eravamo diventati suoi artisti, dovevamo esporre solo con lei, nei modi e negli spazi da lei scelti. Ci fu chi ci chiese come avevamo fatto: c’era una fila di artisti che le telefonavano per anni senza mai avere una risposta. Pierpaolo Ciana e io fummo così accolti da outsider nel cerchio più periferico della galassia triestina, il Gruppo 78, della grande critica.
A differenza di quanto fanno tante mezze calzette, Maria Campitelli presentò e curò la mostra, come le seguenti, per niente: chiedeva solo che le regalassimo un quadro per uno alla fine. Da allora, veniva nella soffitta più o meno una volta all’anno: curò una seconda mostra in cui esponemmo ancora assieme al Palazzo delle Poste e poi, per me solo, una a Muggia alla quale seguì la mia partecipazione a una grande mostra sua nell’ambito di “Arte a Pordenone”.
La volta che la vidi più contenta fu quando l’articolo che aveva scritto per Il Piccolo sulla Biennale di Venezia curata da Jean Claire del 1995 fu giudicato il migliore di tutta la stampa nazionale: era davvero un bellissimo pezzo, su una biennale che ancora ricordo come la più bella.
Le presentazioni di Maria Campitelli incastonavano l’artista sempre nel quadro immenso dell’arte contemporanea. A leggerle di fila, un po’ si ripetevano, come era inevitabile per una critica che ha presentato più di 500 mostre. Ma avevano tutte una grande qualità: Campitelli coglieva sempre la scommessa culturale che porta con sé ogni gesto artistico. La scommessa poteva essere inconscia – se l’artista era istintivo e naïf – come lucida – se l’artista aveva gli occhi per guardarsi intorno –, ma c’era sempre: ogni gesto artistico, raccontato dalla Campitelli, è un gesto che accade nel mondo. Nelle sue presentazioni, quasi sempre all’inizio c’era la rivoluzione di Duchamp: quindi i concettuali di qua e tutti gli altri di là. Allo stesso tempo il suo approccio non era ideologico: si poteva essere bravi stando su uno qualunque dei due lati, anche se almeno a me pareva che fosse sensibile di più a certe iperfinezze – se così si può dire – dei creatori di ready-made. Ma le sentii dire che Francis Bacon era uno dei più grandi artisti di sempre.
Quando decise di infilarmi nella sua grande mostra di Pordenone, mi ritrovai per la prima e ultima volta tra alcuni degli artisti del Gruppo 78: non il massimo della buona accoglienza. Si sa come funzionano queste cose. L’unica che fu amichevole e cara fu la più brava di tutti, Odinea Pamici, giustamente adorata da Maria Campitelli. Il Gruppo 78 di allora (fine anni ’90) non ha nulla, o quasi, a che fare col Gruppo 78 attuale, del quale so molto poco.
Passarono gli anni. Le notizie del Gruppo 78 le avevo da Piero che aveva continuato a frequentarlo fino appunto a diventare una sorta di braccio destro della Campitelli. Intanto diventai incisore alla scuola d’acquaforte di Mirella Schott Sbisà. Alla Sbisà non raccontai nulla di quanto avessi fatto prima, ma la Sbisà – altra grande maestra che stava però proprio agli antipodi della Campitelli – a un certo punto mi chiese qualcosa, e appena mi sentì pronunciare Campitelli si scatenò: «Quella? Chi si crede di essere quella…? Così sicura che a parte i suoi tutti gli altri fanno schifo?». Era ovvio che le perfette acquetinte di paesaggi e mazzi di fiori alla Renoir della Sbisà appartenevano a un mondo che, per una come la Campitelli, erano come per un poeta futurista una poesiola sulle farfalle di Pascoli.
Intanto insegnavo, e la scuola per tecnici audiovisivi che avevo contribuito a creare e difeso strenuamente dalla burocrazia, che in Italia è sempre stupida e reazionaria, si era salvata – proprio come l’Araba Fenice – da tutti i tentativi di affossarla ed era cresciuta.
Quando Maria Campitelli stava organizzando la prima grande mostra su Arte e Robotica in Porto Vecchio, davvero qualcosa di enorme, mi telefonò. Ci vedemmo al Caffè San Marco (a Trieste per cose artistiche ci si vede quasi solo al San Marco). Mi parlò – come aveva fatto sempre – di cosa mi proponeva di fare: voleva dei video che documentassero la mostra. Mi è sempre piaciuto questo lato persino innocentemente spiccio del suo carattere. Mentre ti parlava di quante cose stupende si sarebbero potute fare, pareva dirti allo stesso tempo: se non abbiamo qualcosa da fare insieme, perché dovremmo star qua? Questo lo racconta bene lei stessa nel bell’autoritratto che si può leggere in Donne di frontiera (Il Ramo d’Oro Editore, Trieste 2006): «Sono una persona che sta bene da sola. Svolgo un’attività pubblica, mi incontro e mi scontro continuamente con le persone. Lo faccio perché lo devo fare, se potessi evitarlo lo farei volentieri».
Realizzammo due video. Le piacquero. Organizzò allora nella scuola dove aveva insegnato, il Liceo Artistico Enrico e Umberto Nordio, una conferenza per presentarli. Cosa era diventato il Nordio non le piacque per niente: «fosse stato così ai miei tempi, non avrei mai potuto insegnare». Tra quei ragazzi e i giovani insegnanti tutti alquanto indifferenti, quella giovane era lei, che parlava di arte e tecnologia, di fantascienza e fanta-arte.
La Campitelli nella sua intransigenza non invecchiava mai: lei, il Bianconiglio, aveva sempre un’agenda fitta fitta di appuntamenti col futuro: coi robot, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie, il post-umano… Il futuro per lei era avventuroso e interessante per definizione; il futuro aveva sempre ragione. Mentre la morte è una seccatura che viene a interrompere la storia: di cosa si sarebbe potuto discutere, al San Marco, con la Morte che non sa fare niente? È la più pessima degli artisti, la morte.