Carlo Michelstaedter tra ragione e poesia

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Tredici poesie finora sconosciute riaccendono i riflettori sul filosofo

di Enzo Santese

 

Sergio Campailla, tra gli studiosi più attenti e profondi dell’opera di Carlo Michelstaedter, sull’Espresso del 26 febbraio ’17 spiega come le carte del giovane intellettuale isontino siano una sorta di miracolo reso possibile da un po’di fortuna rocambolesca. La sorella, Paula Michelstaedter Winteler, fuggita in Svizzera perché ricercata dalle SS in quanto ebrea, incarica una vicina, Maria Benedetti, di entrare nell’appartamento abbandonato e prelevare da una cassapanca le “cose” del fratello prima che arrivino i nazisti. Rientrata in possesso di tale materiale, lo trascrive dagli originali che dona alla vicina. Finché la figlia di lei, Bach, apprezzata scultrice a Lubiana, li consegna nel ’74 a Campailla, curatore per Adelphi dell’opera dello scrittore goriziano. Nel 2010 Anna, nipote di Maria, consegna al ricercatore altri due quaderni, manoscritti con zelo da Paula. Sono capitati nelle mani giuste, considerando quanto incisivo sia stato il lavoro dello studioso. In un segmento esistenziale davvero breve (1887 – 1910) e una compressione temporale di cinque anni – direttamente proporzionale al tempo di vita – si sviluppa il pensiero in una serie di opere che vanno dal saggio filosofico alle poesie. Dagli anni ’50 in poi prende corpo una serie di studi che amplificano la dimensione concettuale dell’autore goriziano, ma che di riservano ancora un margine di sorpresa, in un’opera generosa dove convergono seduzioni letterarie diverse che si fondono in una cangiante sintesi personale.

Il paradosso sta nel fatto che la rivoltella che ha sottratto a un amico per evitare colpi di testa, gli serve per quella morte precoce, che si è dato da solo; ciò non gli consente di far conoscere subito un’indubbia genialità, rimasta a lungo inespressa e, comunque, tutta dentro la sua opera filosofica, La persuasione e la rettorica, tesi di laurea sottratta dalla morte alla discussione accademica e confinata a lungo nel silenzio. In effetti il “diavoletto del suicidio”attraversa capzioso il vissuto di Carlo; basti pensare che la signora russa Nadia Baraden con cui il filosofo ha forse un rapporto sentimentale, si toglie la vita come fa il fratello Gino a New York. Il discrimine tra esistere e disparire è un tragitto concettuale lungo cui il giovane pensatore goriziano si arrovella maturando convinzioni che poi codifica nella tesi di laurea. Lo studio dei presocratici, l’analisi dell’opera di Platone e Aristotele sono l’occasione per un approfondimento dei temi legati a una concezione della vita piuttosto dolorosa fino al margine del dramma. Per Carlo la “persuasione” è propria di chi è compos sui, padrone di se stesso, consapevole della vita in cui non si trova casualmente ad esistere, attento a non farsi irretire dai miti e dalle illusioni della “rettorica”, inventate come antidoto al malessere esistenziale. Adattarsi alla vita significa sostanzialmente acquattarsi nell’illusione di essere poi liberi, mentre la libertà assoluta scaturisce dalla vera consapevolezza di sé che contribuisce a esorcizzare la costrizione dei bisogni quotidiani, dei desideri effimeri, delle paure. Quando l’individuo è “persuaso” è anche pronto ad accettare il dolore, stemperandone le punte di negatività insopportabile. Nell’opera che dovrebbe consacrare la sua carriera di universitario pone in contrasto “persuasione” e “rettorica”, scegliendo da una parte personaggi quali Parmenide, Socrate, Eraclito, Empedocle, Cristo, Buddha, Petrarca, Leopardi (la cui poesia lo influenza non poco), Ibsen e dall’altro, rappresentanti qualificati della “rettorica”, Platone, Aristotele ed Hegel. La condizione più dirimente rispetto alla possibilità di “persuadere” è il tempo, che è soprattutto paura della morte, in quanto più avanza più l’avvicina. La sua è una visione pessimistica portata alle estreme conseguenze che, peraltro, non impedisce a Carlo di apprezzare a pieno la positività di cose, persone, e situazioni in cui viene a trovarsi partecipe della realtà, non velato dalla pellicola di sogni irrealizzabili. Così sembrano dire anche le poesie appena “ritrovate”, nelle quali evidentemente la maturazione di alcuni spunti concettuali è ancora in fieri e l’autore riesce ad assaporare ancora, pur a intermittenza, i doni dell’adolescenza.

Il fascino di Michelstaedter sta in buona parte nel suo essere “postumo”, nel suo altrove cercato con caparbia volontà, nella diffusione del suo pensiero, pubblicato e studiato a più riprese solo dopo la morte. In altro tempo e in altro spazio rispetto a quello della sua fisicità esistenziale si installa una riflessione, poggiante sulla logica di antinomie precise , vita-morte, finito-infinito, tutto-nulla, che mostra assonanze con fonti diverse, da Platone a Shopenhauer, da Petrarca a Ibsen. Nel Dialogo della salute il discorso sulla morte si fa serrato, ponendo sotto la cappa di un pessimismo irrisolvibile l’esplicita proposta del suicidio come liberazione dal dolore. Il cupio dissolvi sembra essere la conseguenza di una convinzione che pone il soggetto in uno stato di perplessità di fronte al “presunto” amore divino per l’uomo, in una visione pessimistica che sconfina nel nichilismo. Ciò non gli impedisce di dipingere immagini di bellezza straordinaria, in poesia, nei disegni e nei dipinti.

Il corpus di scritti è un miracolo di attivismo espressivo se si considera il ridotto periodo di composizione. Non meraviglia che siano venute alla luce altre 13 poesie, utili a ricostruire una fisionomia dai suoi albori creativi; il ritrovamento consente di percorrere gli esordi, visto che si ascrivono al periodo 1900 -1905. Il piacere della scoperta deve essere ricondotto comunque entro i binari di un utile documento che va a completare la conoscenza della sua personalità e del suo pensiero. In qualche punto ancora acerba, la scrittura mostra tutta la drammatica dialettica degli opposti che gli è propria, dal senso pieno di una vitalità e gioia di vivere nell’aria pedalando con ardore, ma anche il progetto di chiusura dell’esistenza con un colpo di pistola. “Volo e la strada fuggente di sotto alla ruota anteriore / Bianchi bagliori mi getta, arcana mi dà sensazione / Ave biciclo pietoso che allievi le cure ai mortali!” (In bicicletta, 1902) ma anche quella che, col senno di poi, può essere vista come una prefigurazione del futuro prossimo “ E ancor gli stessi germi in me vegg’io / e nel futuro con l’orrenda gola / guatami là una canna di pistola / Madre natura, amore, vita addio!” La sorella Paula – come si diceva – ha trascritto le liriche dai fogli originali di Carlo e affidate in buone mani, quelle di Campailla, che per primo ha compreso lo straordinario valore delle opere di Michelstaedter per originalità di pensiero e l’assoluta modernità di visione del mondo.

Il colpo di rivoltella con cui il giovane intellettuale pone fine alla sua vita rende inutile una tesi di laurea per la quale il lavoro è stato concepito e realizzato. Nell’opera brulicano motivi che si riverberano nelle poesie, che in tal modo costituiscono una faccia del prisma michelstaedteriano, così ricco di spunti da rendere complessa una codificazione del suo pensiero.

I versi che vanno ad aggiungersi al complesso di quelli finora pubblicati, rappresentano certo l’animo febbrile di un giovane inquieto che scrive, senza mediazioni, ciò che pensa, mantenendo fede alla possibilità della “persuasione”. I temi della solitudine, della morte, dell’immutabilità del tempo che contrasta col misero trasmutare dell’individuo, sono in sintonia precisa con tanta parte della speculazione leopardiana. Indubbiamente queste poesie, precedenti all’opera finora conosciuta, risultano un tassello importante per comprendere come sullo sfondo delle sue preferenze ci sia Foscolo (“mi sembra muta l’armonia del mondo” da XI, aprile 1905), le assonanze con Leopardi, Carducci e D’Annunzio. Qualche salto nell’asimmetria altalenante tra il verso breve e quello lungo, forse dovuta anche a un labor limae rinviato ad altri tempi, alcuni slanci retorici di vibrante effetto ritmico, una linea compositiva che a tratti si muove in aderenza alla misura classica dell’esametro latino, endecasillabi e dodecasillabi, strofe chiuse dal martellare della rima, affermano una compostezza non sempre originale come in varie poesie del quinquennio seguente, ma pur sempre testimonianze essenziali per tracciare un itinerario evolutivo dentro il breve tragitto esistenziale.