Il poeta di Marco Cavallo

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Una mostra a Castiglioncello (Livorno) ricorda la figura poliedrica di Giuliano Scabia

di Roberto Spazzali

 

Giuliano Scabia è un nome che evoca un impegno creativo totale durato mezzo secolo. Deceduto all’età di 86 anni nel 2021 a Firenze, sua città elettiva dopo che Bologna è stata quella della migliore stagione di idee, realizzazioni e provocazioni, lì ha lasciato un grande patrimonio di scritti, appunti, materiali di scena che egli stesso aveva realizzato, raccolti e ordinati dalla fondazione a lui dedicata. Figura poliedrica di poeta, narratore, affabulatore, drammaturgo, scenografo, intellettuale impegnato nella società civile del suo tempo. Di un tempo che ci sembra davvero remoto quanto fortemente attuali appaiono le risposte egli dava ai problemi di allora.

La sua personalità creativa, e soprattutto quella spesa nel campo della sperimentazione teatrale, è stata bene messa in luce dalla mostra “Il poeta d’oro, Il grande immaginario di Giuliano Scabia” ospitata dal 29 luglio al 9 ottobre a Castello Pasquini di Castiglioncello (Rosignano Marittimo -Livorno) grazie al sobrio quanto efficace allestimento curato da Andrea Mancini e Massimo Marino, patrocinato dalla Regione Toscana.

Indovinata la scelta di Castiglioncello, privilegiata residenza estiva di autori, sceneggiatori e attori del miglior cinema italiano degli anni Sessanta, ma anche luogo in cui Scabia ha compiuto alcune sue “passeggiate teatrali con poesia” e dove ha rappresentato con persone del luogo l’ultimo suo testo teatrale, La commedia della fine del mondo. Laureatosi nel 1960 in filosofia morale con Ezio Riondato fin da subito ha iniziato frequentare gli ambienti culturali del Gruppo 63, incontrando Italo Calvino e Jean Paul Sartre, ma soprattutto fissando una stretta collaborazione con Luigi Nono per la realizzazione dell’opera La fabbrica illuminata, per voce e nastro magnetico,  dedicata espressamente agli operai dell’Italsider di Cornigliano (Genova) e presentata alla Biennale di Venezia nel 1964. è stato tra gli animatori del “Nuovo Teatro”, un’esperienza che lo portava a generare l’avanguardia teatrale in Italia con Zip del 1965, per esplorare metodi ed esperienze di azione fuori dagli spazi canonici finora riservati considerando il teatro un viaggio della conoscenza all’interno di sé e verso il mondo. In rotta di collisione con Paolo Grassi nel 1969 abbandonava il teatro professionale per intraprendere proprio quel viaggio verso il mondo, portandolo nelle periferie urbane, nella cintura industrializzata del Veneziano assediata dal fosgene, nei piccoli borghi dell’Appennino tosco-romagnolo, dove il teatro tradizionale non era mai arrivato, facendo della gente del luogo i protagonisti impagabili delle sue rappresentazioni sempre diverse e sempre stupefacenti. Era un raccontastorie e un cantafavole al tempo stesso, in grado di trarre dal patrimonio popolare gli spunti per nuovi personaggi, come il Gorilla Quadrumano, e restituire quel patrimonio di cultura dal basso proprio quando stava per essere travolto dall’oblio della modernità. Il tempo gli ha dato ragione e i premi speciali Ubu del 2005 e del 2015 testimoniano la sua attività di raccontatore giocoso, maestro per tante generazioni e per la sua attività di ricerca nel campo drammaturgico e teatrale.

è stato tra i promotori del Dams di Bologna dove ha insegnato drammaturgia dal 1972 al 2005. Proprio a Bologna ha dato vita a una perfomance per molti aspetti rivoluzionaria, quando nel 1977, dopo i gravi incidenti di piazza, per sedare gli animi e restituire la città alla sua tradizionale vocazione culturale metteva in scena, in quelle piazze e in quelle vie che erano state teatro di violenze, il suo teatro con la performance Il Diavolo e il suo Angelo. Ma prima ancora, nel 1973, era stato protagonista della grande invenzione di Marco Cavallo all’ospedale psichiatrico di San Giovanni a sostegno della rivoluzione culturale di Franco Basaglia. Era il 25 febbraio e il prossimo anno ricorre esattamente il mezzo secolo da quella provocazione. Esperienza poi raccontata in Marco Cavallo. Una esperienza di animazione in un ospedale psichiatrico (Einaudi 1976) e in Lettera ai cavalli di Trieste (Vaiano, Biblioteca Franco Basaglia 1998).

Ebbene, il visitatore era accolto proprio da una riproduzione del Marco Cavallo e poi all’interno della mostra i pannelli  originali da lui usati alla maniera degli antichi cantastorie rapprendano tanti luoghi, spazi, motti dialettali di personaggi reali e immaginari della Trieste di allora che ha egli ha voluto rappresentare in presa diretta, come una cronaca di un’esperienza allora condivisa con un altro rivoluzionario, ma della matita, Ugo Guarino.

La butto là: perché non portare anche a Trieste questa mostra in cui Giuliano Scabia si è ispirato alla città e tanto ha dato ad essa raccontando quanto aveva visto e vissuto?

 

Il poeta d’oro

Mostra Giuliano Scabia 2022

foto Klpteatro