Luigi Diamante

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Con piacere, e con un po’ d’apprensione,
avevo accettato, nella primavera
del 1974, di curare la mia prima mostra:
seguirla, cioè, di sana pianta, dalla scelta
dei quadri, alla scrittura del testo critico,
all’impostazione del catalogo, all’allestimento
e alla presentazione al momento
della vernice.
Sino a quel momento il mio contributo
all’attività della Galleria era stato
quello di recensore: scrivevo sulle mostre
programmate, ma andavo anche in
giro per la Regione a vedere quel che
succedeva a Udine, a Trieste, a Gorizia e
spesso ne scrivevo sul periodico intitolato,
appunto, Sagittaria; e scrivevo anche
su altre mostre che mi recavo a vedere
fuori regione: a Treviso, per esempio, per
la mostra di Gino Rossi alla Ca’ da Noal
o, nel settembre ’74, perfino sulle grandi
mostre di Cèzanne e Mirò che avevo
visto a Parigi durante l’estate, e che mi
avevano francamente entusiasmato, specie
quella di Cézanne.
Scrivevo dunque, e davo una mano
negli allestimenti, ma accadde che una
cara amica mi chiese di vedere i dipinti
lasciati, alla sua morte, da uno zio pittore,
per decidere se fosse il caso di organizzargli
una mostra postuma.
Sapevo chi era il pittore, anche se
non ne avevo mai visto i quadri: c’era
un ricordo che risaliva a pochi mesi
prima della morte, quando egli era sceso
da Udine a Portogruaro per assistere alla
vernice dedicata a due giovani pittori locali,
presso la galleria dei “Molini”.
Di statura non alta, magro, con lo
sguardo acuto e mobile, lo ricordavo
commentare animatamente le opere
esposte, verso le quali esprimeva approvazione,
e dire contemporaneamente dei
propri tentativi di rinnovarsi, con una
passione e quasi un’ansia che veramente
parve a me, che ascoltavo un po’ in
disparte, un segno quanto mai chiaro
dell’impegno che lo sosteneva nel suo
lavoro.
Non bastasse dunque l’amicizia, anche
questo ricordo mi convinse a dire di
sì alla richiesta, e mi recai dunque, qualche
giorno dopo, in una vecchia casa di
Fossalta di Portogruaro, prima utilizzata
dal pittore e da sua moglie per brevi
soggiorni, in quel momento occupata
soltanto da mobili e molti quadri, appesi
o appoggiati contro le pareti di una delle
stanze.
Mi prese subito gli occhi un dipinto
di media grandezza, sui toni del blu e del
bianco.
Rappresentava un gruppo di vecchie
case coperte dalla neve, spirava un’aria
di limpida tranquillità, un freddo conosciuto,
umano, per così dire caloroso poiché,
per contrasto, mi ricordava il caldo
della stufa nei lunghi, allora anche freddi
inverni dell’infanzia e dell’adolescenza.
Io ho sempre avuto un rapporto “filiale”
con la neve, fin da bambino, quando
la osservavo scendere dal cielo in
compagnia di mia madre, alla finestra
della cucina, i cui spifferi non bastavano
a sciogliere il calore della legna che io
stesso, su invito di lei, mettevo dentro al
fuoco.
Ce l’ho ancora negli occhi, quel quadro
– Umili case sotto la neve, 1967 – ma
non ho mai saputo dov’è andato a finire:
mi piacerebbe rivederlo, a constatare
l’impressione che potrebbe farmi adesso,
dopo cinquant’anni.
Credo che ancora mi piacerebbe molto,
così come mi piace ancora molto una
Venezia del 1956, rivista invece più d’
una volta.
Un quadro sontuoso, anche un po’
scenografico, ma non in maniera disturbante,
anzi: interpretava benissimo, con
vivacità e robustezza cromatica sapientemente
modulata, la natura stessa di
Venezia, luogo dove sempre par di camminare
tra le quinte di un grande teatro.
Vidi altre cose, naturalmente, e poi
esaminai anche moltissime carte, di figura
e di paesaggio, a china, a pastello,
ad acquarello, a tempera: mi bastò per
convincermi dell’opportunità di una rassegna
antologica.
Ne parlai a Luciano Padovese, il quale
– ricorderete – dirigeva tutta l’attività
del Centro di Pordenone, e lui me ne
affidò in toto l’organizzazione anche, io
credo, per vedere come me la sarei cavata
in un impegno che comportava tutta
una serie di scelte e decisioni.
Imparai – fui necessitato, volentieri,
ad imparare – molte cose, sul piano
tecnico e sul piano della costruzione progettuale,
cose che fino a quel momento
avevo solo sfiorato.
Il nome dei colori, per esempio: il
rosso, che io chiamavo più o meno sempre
rosso, cominciò a diventare carminio,
bordeaux, magenta, porpora e via
dicendo, il verde fu anche oliva, veronese,
marino, inglese…, l’azzurro fu oltremare,
celeste, cobalto, acquamarina…, il
giallo divenne Napoli, oro, oro vecchio,
pastello, e via e via e via.
Luigi Diamante (1904 – 1971) – è
questo il nome del “pittore udinese” di
cui si sta parlando, e sempre “pittore
udinese” egli si definiva, a sottolineare
una friulanità che era anche coscienza di
appartenere ad un definito clima artistico
– aveva scritto in un suo appunto: «La
pittura, per sentire personale, è colore…»
e in effetti la sua pittura era, cromaticamente,
ricca, spesso addirittura sontuosa,
direi soprattutto sulla scorta di Giovanni
Napoleone Pellis, pittore della precedente
generazione che in Friuli era stato un
punto di riferimento.
Diamante, alla ricerca di una verità
emotiva di cui sentiva l’urgenza, negli
ultimi anni della sua attività aveva ten-
tato forzature cromatiche – certo non immemori
dell’esperienza informel – che
cadevano a volte in una sorta di caos ma
che, nelle riuscite, toccavano un’efficacia
espressiva potente, come si poté poi
vedere, nella mostra, soprattutto in una
serie di ritratti ed autoritratti.
Mi chiarii anche meglio, durante
quella preparazione, sulle varie tecniche
pittoriche, olio, acrilico, acquarello, tempera,
grafite, carboncino, pastello, gesso,
pennarello, china: mi isolavo molto volentieri
nella vecchia stanza della vecchia
casa, entravo in un mondo a parte,
un mondo coloratissimo da cui riuscii ad
estrarre, dopo molte prove e ripensamenti
– costruivo delle sequenze di opere per
anticipare gli effetti di quella che poteva
essere un’ipotetica esposizione – un’ottantina
di quadri, con il senno di poi anche
troppi, ma si sa che del senno di poi
sono piene le teste dei critici: buoni comunque,
i quadri, a dare un’idea piuttosto
precisa, anche in senso cronologico,
della storia di un pittore che nel suo impegno
aveva sempre cercato la poesia, e
non raramente l’aveva trovata: la poesia
di una sequenza di vecchie case in un paese
friulano, con muri corrosi dal tempo
e macchiati da tinte ancora non del tutto
dilavate dagli inverni; la poesia di un
borgo montanaro affacciato su un lago;
la poesia delle osterie con la pacifica partita
a carte; la chiesa di Cortina a china
acquarellata, soffiata nel cristallo; e poi
gli ultimi ritratti, tracciati con segno rapido
e carico di materia, intensi, potenti
e pur ricchi di lirismo, di partecipazione
umana, fino all’ultimo autoritratto del
1970, drammaticamente introverso.
Soleva dire, Luigi Diamante, che ci
sono i pittori soltanto pittori, e i pittori
che sono anche artisti.
Lui apparteneva sicuramente alla seconda
schiera.
E io gli sono molto grato, perché fu
attraverso quella prima esperienza “totale”
che compresi alcune cose essenziali
del lavoro critico: compresi che l’allestimento
è la prima interpretazione visibile
che si dà della storia di un pittore; che
in una mostra antologica bisogna saper
sacrificare anche qualche opera riuscita,
pur di costruire un percorso equilibrato
– vale a dire rispondente il più possibile
a quella che si considera la veritiera
vicenda dell’artista; che un pittore è importante
per i quadri belli che ha fatto,
non importa quanti sono quelli brutti: i
quadri brutti son capace di farli anch’io,
ma quella Venezia, quelle Umili case sotto
la neve, quei ritratti e autoritratti, quei
disegni li ha fatti lui, non io.
Compresi anche l’importanza delle
cornici: non è indifferente, alla percezione
estetica, che un quadro abbia o non
abbia la giusta cornice: essa aiuta a vedere
meglio ciò che deve essere visto.
Compresi, in definitiva, che ogni mostra,
ma specialmente una mostra antologica,
è una regia: ma mentre nel cinema
il regista è al servizio di se stesso, essendo
lui, pur con tutti gli apporti, il vero
autore del film, in arte invece il regista
deve essere al servizio dell’autore, deve
far uscire dal lavoro una precisata, non
generica, non forzata, invece documentata
e motivata interpretazione di una vicenda
esistenziale, di una vicenda umana
in definitiva, che è appunto ciò che ogni
arte ci mette davanti agli occhi.
Insomma, ero pronto per altri impegni
del genere, come poi è stato e – non
so fino a quando – continua ad essere.