Paesaggi tra idillio e reportage

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A Muggia una mostra fotografica di Stefano Ciol, magistralmente pensata e allestita

di Walter Chiereghin

 

Meticolosamente studiata fin dalla fase di selezione delle opere esposte, accostate poi con accuratezza tra loro e organizzate in sezioni, riuscendo infine a conseguire un allestimento impeccabile e coinvolgente, la mostra “Natura, fra splendori e ferite” di Stefano Ciol, curata da Fabio Rinaldi, è visitabile al Museo Carà di Muggia fino al 7 luglio. L’occasione è propizia per suggerire una riflessione non superficiale circa quanto il paesaggio che ci circonda sia parte della nostra stessa identità, collettiva e individuale, faccia parte di noi, sollecitando emozioni profonde e al contempo di disarmante semplicità. Come ogni altra cosa che acquista valore particolarmente nel momento in cui ci viene sottratta, anche il paesaggio ci rende consapevoli della necessità di tutela cui dovrebbe essere fatto oggetto in particolare quando siamo posti di fronte alle scene di devastazione, com’è stato nell’ultimo scorcio dell’anno passato, quando interi boschi sono stati rasi al suolo nelle montagne in territori contigui a quelli in cui abitiamo.

A tutto questo si è ispirato e di tutto questo si è fatto carico di informarci con la forza delle sue immagini Stefano Ciol, fotografo di terza generazione (Il Ponte rosso si era occupato del padre, Elio, nel n. 25 del giugno 2017, con una recensione di Paolo Cartagine), che vive e opera a Casarsa della Delizia. L’ampiezza e l’articolazione degli spazi espositivi del Museo Carà ha consentito di organizzare le immagini esposte, tutte stampate con cura impeccabile dallo stesso autore degli scatti, raggruppandole in sezioni omogenee per tecnica e soggetti, spesso anzi sequenziali l’una rispetto all’altra per la prosecuzione dell’ordito narrativo dell’una in quello della successiva, ad esempio seguendo il crinale di un’altura.

Tutta la prima parte dell’esposizione si avvale di un intenso bianco/nero dove gli spazi invasi dall’ombra a volte contornano a volte sono contornati da quelli illuminati dalla luce, offrendo una suppletiva fascinazione di contenuto formale e valorizzando il ritmo compositivo di ogni singolo fotogramma, giocato sempre sul dualismo proposto all’attenzione dell’autore dalla natura osservata, quasi deprivata o sfiorata appena dalla presenza di soggetti che testimoniano di un intervento umano suggerito appena da dettagli, normalmente marginali e quasi sempre avvertibili solo con un’osservazione attenta in grado di rilevare manufatti o aree coltivate.

Il ricondurre all’austerità e all’essenzialità del bianco/nero di questa prima parte della mostra contribuisce a conferire alle immagini esposte un carattere d’astrazione che in qualche oscura maniera ne aumenta di molto l’impatto emotivo, collocando il soggetto rappresentato in una dimensione quasi di magia e di sacralità, senza ripercorrere le vie troppo battute di una visionarietà arcadica paga di un paesaggismo ruffiano ma sostanzialmente inerte, in buona sostanza incapace di lasciare un duraturo ed efficace coinvolgimento emotivo in chi le osserva.

Tutta basata sul colore, al contrario, la seconda parte dell’esposizione, dove ogni lirismo viene meno, sacrificato all’esigenza di documentare con lucida e direi acuminata vis descrittiva, come in un ben congegnato reportage giornalistico, lo scempio di una natura sconvolta da esondazioni di un corso d’acqua – nella fattispecie il Tagliamento ritratto pacificato, in un’incredibile tonalità di azzurro – oppure dalla furia devastante del maltempo che atterra foreste intere di conifere in una catastrofe ambientale che imporrà decenni di lavoro e di presumibili fatiche per ripristinare un equilibrio che al momento appare irrimediabilmente compromesso.

Al termine dell’emozionante percorso espositivo, una stampa a colori di generose dimensioni regala al visitatore un insperato lieto fine, con un’immagine verde di speranza, non a caso intitolata Hope, che naturalmente riproduciamo per illustrate questo articolo.