Porry-Pastorel, reporter
fotografia | Il POnte rosso N° 72 | Michele De Luca | settembre 2021
Con nove milioni di scatti ha immortalato la storia italiana in una personale visione caratterizzata da una sottile ironia, , da uno sguardo irrituale e da inquadrature tutt’altro che “classiche”
di Michele De Luca
Il 12 aprile del 1915 sulla prima pagina del Giornale d’Italia una sua foto mostrò in esclusiva l’arresto di un giovane Benito Mussolini, durante il raduno interventista a favore dell’entrata in guerra dell’Italia, avvenuto il giorno precedente in piazza Barberini a Roma. Una fotografia che il futuro Duce non gli perdonò mai e che diede origine alla nota battuta: «Sempre il solito fotografo!», come si dice che poi lo apostrofasse un sarcastico Mussolini in più occasioni; «Sempre il solito presidente del Consiglio!», la replica ironica dell’autore della foto. Che era Adolfo Porry-Pastorel (Vittorio Veneto 1888 – Castel San Pietro Romano 1960), che nella Capitale intraprese sulle pagine del Messaggero quella che sarebbe stata una brillante carriera giornalistica, distinguendosi subito per l’arguzia dei suoi articoli e per le – allora – inedite e originali fotografie con cui li corredava, aprendo la strada al genere allora sconosciuto del fotogiornalismo, di cui è celebrato come il padre indiscusso.
Con le sue immagini (nove milioni di scatti) ha immortalato la storia italiana in una personale visione caratterizzata da una sottile ironia, da uno sguardo irrituale e da inquadrature tutt’altro che “classiche”. Il fotografo mostra le contraddizioni del regime senza riserve: smonta i trionfalismi; immortala le risate dei gerarchi, la bassa statura del Re, il conformismo delle adunate “oceaniche”, infrangendo il cerimoniale per riprendere i protagonisti in pose più “ufficiose”. Come faceva il berlinese Erich Salomon, che il figlio Peter definiva «uno storico con la macchina fotografica», ovvero «re degli indiscreti», come lo chiamò il politico francese Aristide Briand, di cui rimane tuttora insuperata la sua capacità di fissare con il suo obiettivo i momenti privati di personaggi pubblici. Ma va detto che fu Porry-Pastorel ad “inventare” la professione del fotoreporter. Scrisse infatti il 2 aprile 1960, il giorno dopo della sua morte, Franco Cremonese nel suo corsivo sul Giornale d’Italia: «Adolfo Porry-Pastorel è destinato a restare una figura di primo piano non soltanto nella storia del giornalismo italiano ma in quello mondiale. Fu infatti il primo fotografo operante al servizio della stampa. Ma l’invenzione della figura del fotoreporter non sarebbe potuta certo avvenire se egli – utilizzando e realizzando praticamente quanto in altri paesi come l’America e la Germania era ancora in fase sperimentale – non avesse organizzato il primo reparto di fotoincisione. Uomo di punta del giornale, quanto e ancora di più di un cronista, ci lascia una storia d’Italia che è forse la più completa e documentata oggi esistente».
La sua intensissima e frenetica carriera, caratterizzata da intelligente e lungimirante intraprendenza e da una forte passione civile (ricordiamo che per tutelare i diritti della categoria, diventò anche presidente del Sindacato Giornalisti fotografi) ci lascia una testimonianza unica. Durante la prima guerra mondiale, come inviato al fronte, Porry-Pastorel sperimentò l’uso innovativo della didascalia che dava una sintetica informazione sugli avvenimenti. Nei suoi reportage riviviamo i drammatici eventi della disfatta di Caporetto, ma anche la fine della guerra con l’entrata dei bersaglieri, il 30 ottobre del 1918, a Vittorio Veneto, la sua città natale. Lo vediamo poi a Parigi nell’aprile del 1919 come inviato alla Conferenza di pace: fra i tantissimi suoi scatti, rimane nella storia quello con cui immortala l’amarezza impressa sul volto del presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando per la perdita di Fiume e della Dalmazia. Fu nel corso della Grande Guerra che Porry-Pastorel imparò a servirsi dei piccioni viaggiatori per l’invio dei negativi e di notizie.
Il suo obiettivo ci ha restituito le immagini della marcia su Roma, dell’inchiesta sul delitto Matteotti, commissionatagli dalla moglie del deputato socialista, le campagne della propaganda fascista, del nuovo assetto urbanistico di Roma con l’apertura di via della Conciliazione nel marzo del 1937 dopo la demolizione della caratteristica Spina di Borgo, delle varie imprese agonistiche del Duce: dalla corsa al nuoto, dall’equitazione allo sci. Mussolini, sempre attento alla cura della propria immagine, in più occasioni preferì avvalersi comunque del talento di Porry-Pastorel, piuttosto che subirne gli scatti impietosi; tuttavia le foto che lo ritraggono in modo più irriverente portano proprio la sua firma. Nel corso dell’occupazione nazista di Roma, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Porry-Pastorel divenne grande attivista del Centro X, il fronte militare clandestino e nella sua agenzia fotografica non solo falsificò documenti di partigiani e antifascisti, ma procurò passaporti falsi agli ebrei.
Ma altrettanto sorprendenti sono le sue foto in cui rivive il “come eravamo” in un immenso reportage che ci trasmette il mosaico più ricco della vita sociale e del costume di un paese totalizzato dalla propaganda fascista, dai miti e riti del regime,
dai bagni al mare, ai caffè, dalle serate di gala, alle cerimonie pubbliche, addirittura a quelle private, come matrimoni e funerali. Il tutto come ci viene abbondantemente raccontato nella importante mostra al Museo di Roma di Palazzo Braschi intitolata “L’altro sguardo. Nascita del fotogiornalismo in Italia”, ideata e organizzata da Istituto Luce Cinecittà con Roma e curata da Enrico Menduni. Si tratta della prima esposizione personale dedicata al pioniere di una professione (irrorata, come in questo caso, da un sicuro estro artistico) che da più di un secolo è al servizio dell’informazione, della curiosità e della cultura su cui si è formata l’opinione pubblica italiana di intere generazioni.
Trascorse gli ultimi anni nella sua casa a Castel San Pietro, a pochi chilometri dalla Capitale, che aveva sempre frequentato come luogo di villeggiatura. Amico di grandi registi e attori dell’epoca, nel 1953 fu lui, anche nella sua veste di sindaco, a suggerire a Luigi Comencini e a Vittorio De Sica questo piccolo borgo, tra i più belli d’Italia, per le riprese di Pane, amore e fantasia, la cui ambientazione contribuì a dare al film un magico alone di incanto e di fiaba.
Dopo la liberazione
Roma, giugno 1944