Venti di guerra

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Tecnicamente non sarà la terza guerra mondiale, ma certo le assomiglia assai. È indubbio però che la convivenza pacifica subisce una pressione inquietante per episodi quali l’utilizzo di gas letali nella martoriata Siria (con conseguente pioggia di missili per iniziativa degli Stati Uniti), e poi l’uso di una super bomba americana da dieci tonnellate in Afganistan, le tensioni al limite dell’intervento con mezzi nucleari in Corea del Nord, anche qui con dispiegamento di forze navali statunitensi.

Una situazione pericolosa che si sviluppa a macchia di leopardo su un teatro asiatico che certo non ha bisogno di ulteriori elementi di criticità, oltre a quelli che spaziano dal Mar del Giappone al Mediterraneo, coinvolgendo anche sulle sponde di questo mare (Nostrum, si diceva un tempo) situazioni geopolitiche irrisolte come quella arabo-israeliana e, assai più recente, la situazione interna di una potenza regionale strategica quale la Turchia, che vede consolidarsi grazie a spericolati equilibrismi di dubbia legittimità, il potere di un presidente, somigliante sempre più a un sultano, che allontana sempre più il Paese dall’Europa, in cui pure è presente con una piccola parte del suo territorio nazionale.

Si tratta, in ciascuno dei casi cui si è accennato, di situazioni estremamente complesse, ove si intrecciano cause ed effetti di valenza economica, ma anche culturale, religiosa e politica, che poco si prestano a semplificazioni che non siano superficiali. Tuttavia alcuni elementi possono essere percepiti con chiarezza, quali l’onnipresenza anche militare degli Stati Uniti in tutti gli scenari, contraddittoria rispetto alla conclamata aspirazione isolazionista di un presidente che, a pochi mesi di distanza dal suo insediamento, agisce sullo scacchiere internazionale con la grazia proterva di un rinoceronte in un negozio di cristalleria.

Vi è tuttavia un aspetto che riguarda, in misura pressoché equivalente, i singoli focolai di questo che rischia di divenire da un momento all’altro un immane incendio ed è la presenza di leader con diverse graduazioni dittatoriali in ciascun punto di snodo di questa accidentata carta geografica.

Nella Corea del Nord la tragicomica figura di un dispotico dittatore, assurto a quel ruolo per designazione dinastica, governa con pugno di ferro e in tutto e per tutto “legibus solutus” un popolo inquadrato con militare acriticità, identificando i nemici in presunti aggressori esterni, secondo una collaudata tradizione autoritaria di politicanti da operetta che con ciò mimetizzano i propri fallimenti. In Siria, anche lui designato al ruolo di presidente dal padre, Bashar al-Asad non si è ritirato dal compiere atroci bombardamenti – pare anche con armi chimiche – nei confronti del suo stesso popolo, in una guerra civile che dura ormai da oltre cinque anni, da quando cioè tentò di reprimere con la forza la cosiddetta “primavera araba” anche nel suo Paese. Ad Ankara infine si stanno sempre più nitidamente palesando le aspirazioni autoritarie di un presidente che, mediante repressioni forsennate e referendum semi-falliti nonostante i brogli denunciati da osservatori internazionali, intende perpetuare e rendere assoluto il proprio potere.

Senza possibili paragoni riguardo la legittimazione democratica, osserviamo per inciso che anche la struttura costituzionale degli USA prevede – sia pure con il bilanciamento di organi istituzionali di controllo – “un uomo solo al comando”, in grado di assumere in autonomia decisioni gravissime quali quelle legate a interventi armati.

Tutto ciò dovrebbe indurre a riflettere sull’opportunità di assetti politici e costituzionali basati su una rigida tripartizione dei poteri e sull’esistenza di forme di controllo in particolare dell’esecutivo, rifuggendo da facili ricette che, in nome della governabilità, possano determinare un vulnus in tema di diritti civili e di ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, secondo il dettato dell’articolo 11 della nostra Costituzione.