La poesia di Maria Grazia Maiorino

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I giardini del mare e precedenti raccolte

una sensibilità capace di scavare nel profondo

«Io mi ricordo di un mare / fino alla commozione»

 

 

di Anna De Simone

 

 

Giorni fa stavo leggendo un bel libro di liriche, I giardini del mare di Maria Grazia Maiorino quando su di me, all’improvviso, si è riversata una cascata di anni, e mi sono rivista ragazza, sulla spiaggia di un paese della Liguria dove la mia famiglia andava quasi ogni anno d’estate. Non ricordo quasi niente, ricordo solo che era agosto e io ero felice, come rarissimamente in seguito mi è capitato di essere. Ero felice anche adesso, mentre leggevo: come se qualcuno o qualcosa mi avesse restituita ai miei vent’anni, ai sogni ingenui di un tempo che non mi apparteneva più, alla felicità di ascoltare una voce, quella voce, che anche quando tutto è franato, ci rimane dentro per sempre. La poesia ha questo potere, di restituirci non solo quello che siamo oggi, ma anche quello che eravamo ieri. Non posso non ricordare qui quella piccola grande lirica di Pascoli che s’intitola Allora e che in quattro strofe ci dice tutto sul nostro passato, sul sogno di una felicità appena sfiorata che sembra riemergere dal subconscio: «Allora… in un tempo assai lunge / felice fui molto; non ora / ma quanta dolcezza mi giunge / da tanta dolcezza d’allora! // Quell’anno! per anni che poi / fuggirono, che fuggiranno, / non puoi, mio pensiero, non puoi, / portare con te che quell’anno! // Un giorno fu quello, ch’è senza / compagno, ch’è senza ritorno; / la vita fu vana parvenza / sì prima sì dopo quel giorno! // Un punto! … così passeggero, / che in vero passò non raggiunto, / ma bello così, che molto ero / felice, felice, quel punto».

Gli anni si sono ammucchiati l’uno sull’altro, ma noi non ce ne eravamo accorti. E oggi ci pare di esserci davvero risvegliati “in un prato / dopo un lungo sonno prigioniero”. Scorrono su uno schermo immaginario i fotogrammi di un film che ci riguarda da vicino: il film della nostra vita.

Ci sono versi, nei Giardini del mare, che rivelano una sensibilità capace di scavare nel profondo e di far affiorare alla superficie della coscienza, sorprendentemente, stati d’animo, situazioni, momenti di vita nei quali chi legge si può riconoscere e ritrovare. Non sapevo niente di questa poetessa, del suo percorso esistenziale e culturale, non conoscevo le sue liriche, ma quando ho aperto quel libro, sono rimasta folgorata da questi due versi: «e fu come svegliarsi in un prato / dopo un lungo sonno prigioniero». Uno svegliarsi che in realtà è un risvegliarsi, e poi una scena nitidissima che si staglia davanti a te (o dentro di te) a una distanza di tempo quasi infinita, tutto il tempo della tua vita: tu le vedi molto chiaramente le immagini di quel “film”, vedi te stessa su una spiaggia. Sei sola ma non sei sola e vorresti dire anche tu a qualcuno che forse avresti amato: «vieni ad abitare nel mio guscio / ti prego e sarà aperto mare». Ci raggiungono echi di altre poesie. Ci risuonano dentro i versi di Antonia Pozzi, che amò riamata, ma fu spinta al suicidio dalla durezza di un padre che non rispettava i suoi sentimenti, non ne accettava le scelte, non voleva e non sapeva capire. La negazione era la sua arma. E lei, Antonia, da quell’arma fu uccisa, prima nella mente e nel cuore, dopo nella realtà quando dovette separarsi dall’uomo che amava: «Se io capissi / quel che vuol dire / – non vederti più — / credo che la mia vita / qui – finirebbe». Così scriveva nel 1933. Cinque anni dopo, il suicidio.

Come non leggere e rileggere, poi, la rielaborazione di un salmo (42, 5), che è tra le cose più felici di questo libro?

 

Io mi ricordo di un mare

dove azzurro non era colore

dell’acqua ma sostanza

d’azzurro come polpa

nel frutto d’aria avvolgente

e i corpi due minuscoli semi

stillanti

 

Io mi ricordo di un mare

fino alla commozione

piegato tra le mani congiunte

appeso a un raggio di sole

quando ogni gesto è spezzato

largo respiro salino

sulla fronte di pietra

 

Non è meno intensa la chiusa di Lanterna verde: «I luoghi sembravano fatti / di cose immutabili / come pietra angeli mare» là dove arrivavano i gabbiani.

Ma dietro l’angolo se ne sta acquattato il tempo dell’angoscia. E allora il mare cambia colore, la vita tutta cambia colore e la felicità si allontana da noi sbattendoci la porta in faccia («e penso all’intreccio disfatto»).

Forse il cuore di questo libro, ricco di cultura assorbita e rielaborata in modo sempre personale, ma ricco soprattutto d’amore, è Funeral song: «Ti chiamo come un anno fa /l’angelo della morte è passato vicino / nel confine sottile già fuori del tempo / dove il cielo d’aprile è una bugia / avrei voluto regalarti il mio pianto / così vicino al tremore senz’occhi / di notti inabissate nei corpi / il paesaggio più grande/ il vento impetuoso / che non muove i capelli / lo scrosciare lontano / di campane sciolte / in un paese perfetto / che non sapevamo abitare // E adesso dal giorno che sconfina / ti chiedo come farò a resistere / un’altra notte senza te».

Già, come fare a resistere? Come colmare quest’attesa infinita di una persona amata e perduta? Rimangono i quadri che ha lasciato e che dipingeva di notte: «… sono i gialli rossi azzurri delle / nostre estati delle tue mani che / mentre dormivo tessevano tele / inconsapevole lascito d’amore / voci da raccogliere nel tempo… ».

L’ultima sezione di questo libro tanto vissuto, tanto sofferto, tanto pieno d’amore e di dolore, è dedicata agli haiku, alla loro grazia, alla loro brevità. Haiku simili a questo: «Andare lento / per nubi di biancospini / nascosto il monte». O simili a quest’altro, che accoglie in sé la dolcezza di un dipinto giapponese: «Un fiordiluna / s’aggiunge al ciliegio / notte d’aprile». Il mondo, la natura, il paesaggio, i sentimenti sono assiepati in tre versi. Il libro, caratterizzato da sentimenti positivi, ma soprattutto da un’evidente apertura verso l’altro, si chiude, infine, con questo haiku:

 

Ali di pietra

simili agli angeli

tacciono i ponti

 

Interessante e non privo di sorprese è anche Viaggio in Carso (Ediz. del Leone, Spinea-Venezia 2000), un luogo dell’anima per chi, come la Maiorino, vive ad Ancona, ma è nato a Belluno e ha sempre amato molto il Carso. Il libro è ricco e vario; contiene persino una poesia dedicata alla Silvia leopardiana, liberamente interpretata, reinventata («Silvia e il suo cappotto grigio / Silvia sola sola sola»).

Il viaggio comincia a San Donà di Piave: «Leggi il nome del tuo fiume. La foce / vista in sogno da qui non è lontana». Il fiume del “destino”, il Piave, se ne sta ben nascosto “nella valletta di salici”. Camminando in questi luoghi si scopre la bellezza, si intravede la felicità: «Fiori di cardo stellano i pendii / seta écru scintillante e cobalto blu / dell’aconito e della genziana / venata di viola […] Si suona e si balla in un punto della valle / lì sembra finire la strada la domenica / il viaggio – un invito a sostare / a toccare quando la vita per un attimo / è un lungo strascico cangiante / e l’estate la sposa».

Il viaggio nella bellezza e nella storia continua: «L’unica finestra illuminata / una luna nella piazzetta deserta / Cividale longobarda ti lasciammo / al cuore delle tue pietre istoriate / al mistero delle gioie riposte / nel crepuscolo la voglia di tornare / per aprirti e frugarti gli occhi come baci».

A questo punto l’io narrante si dirige verso il museo di Caporetto (Kobarid) in una placida giornata di settembre. Ma di placido non c’era niente nei giorni della prima guerra mondiale. A distanza di un secolo forse si riesce a sentirne ancora la sofferenza, se si viene guidati in questo viaggio a ritroso nel tempo, da una figura amata, quella del nonno: « È lui che cerchi è lui che ami / in ogni museo della guerra è / in lui che ami tutti quei soldati / ammassati dentro e fuori una baita / nell’attesa della battaglia – recita la / didascalia – nell’innocenza dell’attesa». Vengono in mente le trincee del Carso e con esse i versi brevi di Ungaretti, ma vengono in mente anche le scene dell’ultimo capolavoro di Ermanno Olmi, Torneranno i prati, dove la ferocia della guerra – e l’amore per la vita – si respira in ogni sequenza del film, immerso nel buio delle trincee.

«È un’altra così inondata di luce bianca la saletta da pranzo dell’albergo di Sistiana, la bora che entra dalle vetrate gonfiando le tende sembra trascinarla via. Forse oggi chiuderanno, forse l’albergo salperà, come una nave addormentata, e i grappoli del pergolato matureranno solo per pendere sontuosamente sugli ormeggi abbandonati… ». Impossibile, a questo punto, resistere al fascino del Mio Carso di Scipio Slataper esposto in una libreria di Gorizia e subito comperato. Non si dimenticano queste sue parole: «Il mio Carso è duro e buono. Ogni suo filo d’erba ha spaccato la roccia per spuntare, ogni suo fiore ha bevuto l’arsura per aprirsi… ».

«Da Gorizia si sale al San Michele / prima pietra del Carso rubata all’imbrunire /non lontananze impervie ma domestiche / vie fra monete multicolori di sommacchi / È presa Cima Tre Viva l’Italia» (Da Viaggio in Carso).

La raccolta di versi intitolata Di marmo e d’aria (Piero Manni, S. Cesario di Lecce 2005) ha invece il suo centro in una poesia dall’incipit involontariamente mallarmeiano, che riflette i giorni del dolore, il tempo della perdita. Insopportabile quell’angoscia, senza conforto le giornate e le notti solitarie, in una casa dove un tempo abitavano giorni felici. Ma ora, «Letti tutti i libri / ascoltate tutte le voci / spente tutte le luci / che cosa farne di una luna quasi / piena serrata fuori dalla finestra / che cosa farne delle gardenie fiorite».

Questi versi hanno fatto vincere alla loro autrice il primo premio del “Marianna Florenzi” per la Poesia d’Amore (ed. 1999) con una motivazione della giuria presieduta da Cesare Garboli, che vale la pena riportare di seguito: «Per la complessità della costruzione, per la modernità lessicale e delle citazioni letterarie e di costume, per la sensualità dell’amore-passione rievocato in cadenze aritmiche e audaci entro un clima di controllato romanticismo».

Maria Grazia Maiorino ci fa vedere e toccare quasi con mano la pena di chi non sa che farsene né della luna, né di un vaso di fiori, perché senza la persona amata, la vita sembra aver perduto il suo significato: «come si fa a cadere nel buio / fuori dalle tue braccia?». È, questa, a mio parere, una lirica di notevole spessore; una poesia d’amore profondamente sofferta: «sapevo che c’eri / e c’era un limite al dolore […] e ascoltarlo era come sempre / era come sempre». Ma adesso? Eppure a volte si ha l’impressione che tutto possa ricominciare, che la persona che abbiamo amato, sia ancora qui, vicino a noi, come ci ripete l’autrice, in ognuna delle cinque strofe di un’altra lirica, nella quale molti lettori potrebbero ritrovarsi e rispecchiarsi:

 

Oggi tu c’eri

in ogni stanza mi venivi incontro

ma non riuscivo a fermarmi

ad ascoltare

[…]

Oggi tu c’eri

avrei voluto sederti accanto

in silenzio amoroso

solamente

 

Oggi tu c’eri

invece io sono uscita di casa

e per scriverti sono arrivata

fino a questa panchina

 

E forse non è un caso che la prima sezione di questo libro si chiuda su Le ninfee di Monet, un dipinto di grandi dimensioni a cui la persona amata aveva lavorato a lungo, dopo un viaggio in Francia. Così commentava questa lirica Marino Alberto Balducci, nella motivazione di un premio letterario (2002): «… Per un attimo è un profumo – l’illusione – poi soltanto il vuoto dell’assenza. Da questo vuoto di pena, dal soffocante logorio di un’angoscia profonda, la Maiorino ci solleva e ci convince pienamente, con il sortilegio dei suoi versi in cui colore e immagini si fondono nello spazio impressionante di un miracoloso affresco di parole». «Si riflette nello specchio del comò / il quadro azzurro appeso alle mie spalle / e anche quando non lo guardo / una benedizione protegge il sonno / immerso nei colori calmi dell’acqua […] Soltanto alla fine apparvero le ninfee / rosa e al centro anelli purpurei / Io ti spiavo distratta ma ricordo bene / il momento in cui lo stagno prese vita / la scena va vista allontanandosi / le ninfee continuano ad apparire / le loro piccole macchie chiare / fioriscono sulle cose perdute / Giverny di tutti i nostri giardini». Struggente, quell’accenno, da una parte a chi sta per lasciare i colori della terra, dall’altra al luogo in cui Monet era andato a vivere nel 1890, costruendosi il suo paradiso in un giardino tanto bello che evoca il nostro Eden perduto.

Vorrei concludere queste riflessioni sulla vita, sulla poesia, sull’amore, sul dolore, con una canzone contenuta in Viaggio in Carso, che è anch’essa una dichiarazione d’amore, ma questa volta per… una città, Lubiana, su cui si chiude il libro. Prima del congedo definitivo. Quando si parte «salutando qualcosa / che non c’era… ».

 

Amata

la pioggia che ha lucidato le tue strade

Amata

la notte che ha acceso candele sul lungofiume

Amata

l’estate che nei caffè all’aperto è rimasta ad aspettare

Amata

città castello di petali chiusi

che all’alba si apriranno nella piazza del mercato

Amata

Lubiana straniera lieben sotto un ombrello

 

Amata

nei pub schiene di ragazzi intorno ai banconi

tra il barocco lieve delle chiese e il ponte

una statua di poeta

rumore di fontane e di passi nelle piazze

e la tua stazione color giallo limone

 

Amata Lubiana straniera mai più così nostra stasera

 

 

 

 

Copertina:

 

Maria Grazia Maiorino (

I giardini del mare

Pequod, Ancona 2011

  1. 112, Euro 13,00

 

 

Il disegno è di Raimondo Rossi.