L’Istria affascinante di Elio Velan

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In un libro del giornalista di Rovigno una Descriptio Histriae nuova e appassionata

di Walter Chiereghin

 

Ho conosciuto Elio Velan qualche anno fa, l’ho incontrato più volte negli studi della RAI di Trieste, dove ha avuto la compiacenza di intervistarmi in merito alla mia attività relativa dapprima alla conduzione di Trieste ArteCultura, poi, dopo la chiusura della gloriosa testata fondata da Claudio H. Martelli nel 1998, della rivista web Il Ponte rosso. Forse è un po’troppo affermare che da quegli incontri è nata un’amicizia, ma solo in quanto ne mancano i requisiti di continuità e dell’assiduità, perché ogni altro componente, a iniziare dalla stima professionale e umana, è invece presente, almeno nella mia percezione di lui. La premessa era d’obbligo, nell’accingermi a recensire il suo libro, in quanto, per correttezza, devo avvertire il lettore della mia inclinazione a formulare un giudizio sull’opera, derivante almeno in parte da quello, largamente positivo, che ho maturato sull’autore.

Sbrigata questa forse inessenziale avvertenza, parliamo del libro: La mia Istria, confessioni e testimonianze, scritto prima in croato (Moja Istra, ispoviijesti i svjedočanstva) e quindi auto-tradotto dall’autore. Devo dire che, quando la mia lettura superò di poco la metà del volume, mi venne fatto di pensare che si trattasse in effetti di due libri, come in qualche modo suggerisce il sottotitolo: una prima parte descrittiva e intimista, in tono appunto di confessione, e una successiva fase dove il mestiere di giornalista e la vocazione di storico paiono prendere il sopravvento, con la presentazione di testimonianze relative ai tanti episodi molte volte tragici che hanno costituito la storia recente della penisola istriana. Poi, procedendo ancora nella lettura, mi resi conto che non si trattava soltanto di due parti distinte, ma che con la sua scrittura Velan aveva tentato la via di una rappresentazione sfaccettata della sua personale realtà, che certo non può concretarsi se non inserita all’interno di una visione che la trascenda, nello spazio e nel tempo. Un libro, dunque, che non attiene né alla narrativa né alla memorialistica, che non è inchiesta giornalistica né storia, anche se con la sua poliedricità tocca questi e altri ambiti apparentemente distanti tra loro, come l’elegia e il ragionamento politico.

All’inizio del libro c’è un uomo – l’autore – che sulla soglia dei suoi sessant’anni, confrontandosi col più giovane dei due figli, Gianni, narra sé stesso, intraprendendo un itinerario di ricerca che, se non si dispiega lontano nello spazio, lo pone in relazione con il territorio che l’ha visto crescere nel quale affondano le sue radici. È dal mare che parte l’esplorazione di Velan, ma non è “l’alto mare aperto” dell’Ulisse dantesco, ma quello costiero, «soltanto un tassello infinitesimale del piccolo-grande mosaico adriatico» (p. 26) che circonda la sua Rovigno, che s’interseca tra gli isolotti del minuto arcipelago che la fronteggia, disegnando uno spazio che l’autore esplora con la sua barca collocandosi all’interno del paesaggio – invero assai suadente e seduttivo – che gli è stato dato in dono dalla sorte. «La storia delle isole come la storia dei venti: effimera, ingrata, ma così bella e sfuggente. Ti muovi nello spazio in cui avverti la perfezione del creato, l’armonia divina, irraggiungibile, eppure onnipresente. Mi chiedo che cosa sto dipingendo: le isole o noi?» (p. 18).

Subito, tuttavia, il paesaggio si arricchisce di ulteriori contenuti, esibendo dentro di sé la presenza umana: si tratta di manufatti e di antiche storie, dov’è indistinguibile il confine tra verità storica e leggenda, com’è per esempio per Cissa, un’isola, sede vescovile, sparita dalle carte geografiche, ancorché citata da Plinio il Vecchio. Storie e leggende che vengono tramandate dalle carte degli archivi analizzate dagli storici, ma anche, si immagina, da lunghe narrazioni orali, di quelle che incantano i bambini e che li rendono recalcitranti all’andare a letto.

«Con il mare e le isole ho ricevuto in dono, per merito o demerito, una comunità che nel lungo fluire dei secoli ha prodotto una spessa sedimentazione linguistico-culturale per cui ogni isola e ogni palmo di costa hanno avuto un nome molto prima che io nascessi» (p. 16.). Ecco dunque farsi avanti sulla scena rappresentata da Velan un terzo protagonista, dopo il naturalistico palesarsi del paesaggio e dopo i segni che certificano in esso una presenza umana; si tratta della parola, l’utensile di cui si giova l’autore, che è anche il suo abituale strumento di lavoro nell’attività giornalistica. La parola è anche elemento identitario, e lo è a maggior ragione in un ambito così plurale come quello istriano, in cui coesistono tre lingue nazionali (sloveno, croato e italiano) e una quantità di dialetti, purtroppo in molti casi in via d’estinzione, com’è per il rovignese. «Quando perde la lingua l’uomo perde se stesso e con la scomparsa del dialetto un pezzo dell’umanità va in frantumi; è proprio la dimensione dello sviluppo che contraddice il significato della parola progresso» (p. 35).

La lingua in Istria troppo spesso ha cessato la sua funzione di comunicazione per costituire un discrimine che separa borgo da borgo, talora casa da casa e per quasi tutto il secolo passato è divenuto il presupposto per violenze fisiche e morali, per coercizioni e negazioni, per esodi di proporzioni bibliche e per stragi efferate, come pure per scontri politico-amministrativi sulla scuola, che a seconda del momento storico si vuole gestita mediante lingue d’insegnamento diverse. La rievocazione delle storie che hanno attraversato il Novecento è svolta con la perizia giornalistica che deve essere riconosciuta a Velan, che diventa nel libro il più efficace strumento per fuggire le generalizzazioni, adeguato invece, al contrario, per rendere di palpitante attualità vicende che sarebbe ingiusto consegnare acriticamente agli archivi e alle statistiche, senza che prima non si fosse trasmesso al lettore almeno una pallida evocazione delle emozioni spesso squassanti vissute da chi, in prima persona, ne è stato testimone.

Ma siamo oggi avanzati in un nuovo secolo: con altri problemi, altre opportunità, altre migrazioni dovrà fare i conti l’Istria, come pure il resto del pianeta. Questa constatazione colloca Velan in una posizione critica rispetto a semplicistiche letture che vengono proposte a delineare un profilo per la situazione attuale del suo territorio: «Sono figlio del ventesimo secolo. Il nuovo millennio è solo una somma di anni e del tempo che passa. La multietnicità della penisola [istriana n.d.r.], così come viene professata e propagandata dall’attuale élite politica, sia croata che italiana, non mi tocca, vivo e scrivo ai margini, mal sopportando l’auto glorificazione che si serve di parole e frasi vuote» (p. 125). È l’atteggiamento di un intellettuale consapevole della realtà nell’ambito della quale si muove, uno che oppone una caparbia volontà di capire a fondo presente e possibilmente futuro della terra dove ha avuto la ventura di nascere e di vivere, per segnalare a chi verrà dopo di lui il rischio concreto di ripercorrere i fallimenti di un passato che ha edificato muri di intolleranza e xenofobia su un paesaggio che invece è solcato solo dai muretti a secco che un recente provvedimento dell’Unesco ha incluso nel patrimonio immateriale dell’umanità.