SCIPIO SLATAPER E LA VOCE
Storia di una fruttuosa collaborazione

La_Voce_Giovanni-PapiniSenza troppi giri di parole, nel gennaio 1909 Scipio Slataper scrive al direttore della Voce, Giuseppe Prezzolini, comunicandogli di essersi abbonato alla sua nuova rivista, il cui primo numero era uscito il 20 dicembre 1908. Si offre di verificare la sua diffusione a Trieste e di scrivere qualche articolo sulle «speciali condizioni nostre in fatto di arte e di scienza». A modo suo, risponde all’editoriale del 27 dicembre 1908 con cui la redazione invitava i lettori a collaborare per diffondere la conoscenza «delle provincie e dei piccoli centri e delle campagne, dove si respira aria meno scettica che nelle mezze grandi città d’Italia». Già, la cultura italiana stava registrando, nelle sue città industrialmente più avanzate, Torino e Milano, ventate di ribellismo e di insofferenza verso il vecchio ceto di intellettuali, quelli alla D’Annunzio e alla Carducci per intendersi, ma anche verso una cultura affascinata dalle prospettive economiche offerte dall’industria culturale, che chiedeva scritture più domestiche, in grado da essere affrontate da un pubblico allargato e culturalmente meno preparato. In questo contesto gli scrittori studiavano la possibilità di stabilire un rapporto costruttivo con i ceti colti della nazione, coinvolti in una trasformazione epocale in seguito al decollo industriale italiano. Il ribellismo primonovecentesco si innestava dunque sulle suggestioni di una visione del mondo che cominciava a far piazza pulita di filosofie sistematiche come idealismo e positivismo, interne a una prospettiva storicista, e che preferiva trovare i suoi fondamenti in filosofie nuove come il bergsonismo, l’intuizionismo, il pragmatismo, il relativismo, il niccianesimo.

Slataper non ha difficoltà a dialogare con gli altri vociani attraverso una serie di articoli che compaiono sulla rivista a proposito di nuove possibili forme del romanzo, genere di buon impatto ideologico, per la sua struttura innervata da un sistema di personaggi ben articolati e da una logica consequenziale relativamente alla definizione di valori positivi o negativi. Insieme a lui anche Giovanni Boine, Renato Serra, Giovanni Papini e Ardengo Soffici, al di là di suggestioni ideologiche pur assai diverse tra loro, esprimono il loro disagio, su cui si interrogano: «O allora? Scriviamo: ma per far chiaro dentro di noi […]; ma intanto sarebbe utile spalancare i vetri e anche la porta perché ci tiri (dalla campagna, Papini) una buona ventata di tramontana […]. Ma anche l’arte ha una moralità tutta sua, specifica, al di sopra della morale umana, perché la supera e la precede» proclama Slataper nel suo articolo-manifesto Ai giovani intelligenti d’Italia. Capisce, con gli altri, che va rifondato quel genere così caro alla borghesia ottocentesca desiderosa di veder rappresentato attraverso il romanzo, come dirà Boine, in «idilli il mondo, a quadratini, a disegnetti ordinati». E dunque il triestino non ha dubbi nel confermare a Soffici che «il nostro genere sarà probabilmente il diario». Che sia una posizione largamente condivisa lo dimostra quanto gli scrive in una lettera dell’11 aprile 1911: «Come vedi non faccio altro che plagiarti. Ma mi piace parlare delle nostre persuasioni». Dal confronto con gli altri vociani Scipio dunque prende spunto per imboccare la strada innovativa di quell’autobiografia lirica che è Il mio Carso.

Il dibattito letterario non era ovviamente disgiunto da quello socio-culturale e politico, se La Voceintendeva misurarsi sui problemi che i governi dell’Italia unita ancora non avevano risolto, dalla questione meridionale al suffragio universale, dall’antigiolittismo alla riforma della scuola, dal modernismo alle nuove morali anche sessuali e così via, ad opera di collaboratori provenienti dalle più diverse discipline e dai più vari orientamenti politici. Oltre alle corrispondenze citate, alcune notizie ci vengono dal carteggio tra Slataper e Prezzolini (alias Giuliano il sofista), recentemente pubblicato a cura di Anna Storti per i tipi delle Edizioni di Storia e Letteratura. Incrociando articoli e lettere, si può vedere quali fossero i temi che più li appassionavano. Una grande attenzione viene posta nel vagliare le posizioni dei giovani intellettuali francesi che, come loro, si erano posti il problema di elaborare un progetto politico, sociale, morale e spirituale in grado di sostenere le mutazioni profonde che stanno rinnovando la cultura occidentale. In molte lettere i due si scambiano commenti su autori variamente discussi sulla Voce, come Charles Peguy, Paul Claudel, George Sorel, Romain Rolland, i cui libri in qualche caso si prestano a vicenda. Che fosse una problematica di scottante attualità si capisce dall’impegno con cui il giovane triestino ha voluto contribuire ad importare su una rivista italiana, tra l’altro la più importante dell’età giolittiana, autori già noti a Trieste, come Hebbel ed Ibsen, o studi su culture poco conosciute nella penisola, come quella nordica, tedesca e ceca, tanto da assegnare incarichi precisi ai suoi sodali, Marcello Loewy, Alberto Spaini, Ferdinando Pasini, Carlo e Giani Stuparich, Enrico Burich. Dalle lettere si evince come i due interlocutori si scambiassero opinioni sui collaboratori della rivista, e come il giovane mettesse in guardia il direttore, ad esempio, dall’offrire troppo spazio a Salvemini. Amicali e confidenziali, le lettere parlano di tutto, anche delle rispettive famiglie, tanto che da esse è possibile verificare la veridicità di alcuni episodi del suo Carso, come la brutta malattia della madre, cui fa ripetutamente riferimento, o la storia dello zio garibaldino. Presenti con alta frequenza le notizie relative a Dolores, la moglie di Giuliano Il Sofista mentre, a sua volta, in una lettera del 2 giugno 1910 Scipio racconta all’amico i casi delle tre amiche, Elody Oblath, Luisa Carniel e Anna Pulitzer, inserendo tra le righe ipotesi fantastiche sulle sue attese di felicità: il bello di un carteggio è anche scoprire l’aspetto quotidiano del rapporto, i racconti di escursioni e viaggi, lo scambio reciproco di consigli su come farsi pagare per il lavoro svolto, annotazioni ragionieristiche su alcune voci di bilancio. Ma spiegano bene alcune strategie culturali della rivista le lettere che affrontano argomenti spinosi, come i risvolti politici sui quotidiani locali in relazione ad alcune prese di posizione della «Voce». A dire il vero sul piano politico il nostro scrive quasi esclusivamente in relazione agli accadimenti nella sua città, i cui problemi, grazie alle famose Lettere triestine, si possono inserire ormai all’interno di un dibattito nazionale: la presenza degli slavi in città e l’irredentismo scatenano prese di posizione anche forti. Su questi temi i due discutono a lungo, progettando un numero unico della rivista per cui Scipio coinvolge altri triestini, come Ruggero Timeus, Angelo Vivante, Ferruccio Suppan, e scatena una polemica con Attilio Tamaro. Prezzolini aveva preso subito in grande considerazione Scipio, tanto da affidargli la direzione della rivista nei brevi periodi in cui aveva dovuto assentarsi da Firenze. Il dialogo tra i due procede intenso fino a tutto il 1911, anno in cui le discussioni sulla linea da prendere in occasione dell’impresa di Libia provocano tra i collaboratori attriti tali da spingere Salvemini ad uscire dalla rivista e a fondare L’Unità, e da favorire il passaggio della direzione, nel 1912, a Papini, seppur per breve tempo. Quando la rivista torna sotto la direzione di Prezzolini, Scipio reputa che l’esperienza vociana si stia esaurendo. Pochi sono gli articoli e le recensioni da lui proposti nel 1912, perché preferisce impegnarsi con gli ultimi esami, terminare la tesi di laurea su Ibsen e pubblicare Il mio carso per le edizioni della Voce, ma soprattutto perché è entrato in contrasto con il direttore. Uscito dal Consiglio di Amministrazione della rivista, dopo la laurea, come è noto, va ad Amburgo. Ma intanto ha depositato, dal 1910 al 1912 una serie di riflessioni che documentano la sua maturazione politica, dall’iniziale distanza dall’irredentismo (e dal socialismo), all’idea che sarebbero dovute passare all’Italia non solo Trieste, ma tutta l’Istria, Fiume, e almeno qualche isola italiana-croata del Quarnaro (Lussino per esempio) e Lissa. Lo chiarisce in una lettera del 26 marzo 1914 a un altro vociano, Giovanni Amendola. Certo, aveva ripreso i contatti anche con Prezzolini, fin dai primi mesi del 1914, quando, declinando l’invito a riprenderei contati con una nuova Voce, confessa di avere per la testa qualcosa che stava tra il Carso e le Lettere triestine, evidentemente un pamphlet «tra storia, lirica, politica e programma d’azione triestina: L’Adriatico». Pensa a un libro sul ruolo dei «popoli senza storia», nell’ipotesi che i grandi imperi multinazionali avrebbero potuto trasformarsi in una confederazione di regioni. Auspica insomma che in zone di confine, a popolazione mista, per la soluzione dei conflitti interetnici sarebbe stato più utile il potenziamento delle autonomie locali. Allo scoppio della guerra Slataper torna a Trieste dove nell’agosto 1914 aggiorna Prezzolini sugli amici e i parenti richiamati in Galizia; né tace della necessità di organizzare i pochi giovani rimasti per la raccolta del grano. In un paio di lettere ad Amendola, scritte verso la metà di agosto del 1914, narra di come l’opinione pubblica a Trieste fino a pochi giorni prima sia stata travolta dall’odio astioso contro gli slavi, tanto da sostenere la necessità della vittoria austro-germanica che tagli la testa al panslavismo. Poi avverte Amendola che il momento storico è ormai arrivato e che non bisogna perdere «l’unica occasione, forse per un secolo e più». Intanto, nel novembre del 1914 la direzione della Voce passa a De Robertis. L’esperienza vociana per Scipio si è davvero chiusa.

di Cristina Benussi