Dido and Aeneas del conservatorio Tartini

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Festeggiati assieme, con una bella messinscena del Dido and Aeneas di Henri Purcell, i 120 anni del Conservatorio e i 100 del Teatro Verdi di Muggia

di Luigi Cataldi

 

Il Conservatorio Tartini di Trieste compie 120 anni, festeggiati, fra l’altro, il 27 maggio scorso, con una bella messinscena del Dido and Aeneas di Henri Purcell al Teatro Verdi di Muggia (di cui anche ricorre il centesimo anniversario della fondazione). Nel corso di questa prima parte dell’anno il Tartini ha organizzato 24 concerti in sede e 45 eventi, in sede e fuori, per celebrare avvenimenti storici nazionali e della nostra città (come il giorno della Memoria e quello del Ricordo, i Martiri di via Ghega, l’8 marzo), personalità artistiche (Tartini, Zanettovich, Pasolini), per stringere collaborazioni didattiche (col Fai, con il Liceo musicale Dante-Carducci, con la Scuola interpreti), oltre ai consueti saggi degli allievi. Più che altrove è al Tartini che si può ascoltare musica contemporanea o musica antica, come in occasione dell’opera di Purcell.

Dido and Aeneas probabilmente nacque fra il 1684 e il 1686 come parte di un masque (grande spettacolo di intrattenimento del re), ma l’unica rappresentazione documentata (di cui resta il libretto) fu a Chelsea, nel collegio per giovani aristocratiche del ballerino Josias Priest nel 1689. La più antica partitura tramandata è del 1750. È incompleta persino rispetto al libretto. Nonostante ciò l’opera, così com’è, è un capolavoro di simmetria e equilibrio: con tre atti, il primo e l’ultimo a corte, il secondo in un ameno bosco; con geometrica disposizione di arie, cori e balli; con tre lamenti, uno di Belinda al centro, due di Didone, incomparabili, in apertura e in conclusione; con le tonalità-simbolo di Enea (re minore), Belinda (si bemolle maggiore) e Didone (sol minore).

Non «pio», ma tronfio e ondivago è l’Enea di Nahum Tate, autore del testo. È accolto come uomo del fato dal popolo e come amante e sposo da Didone. Le giura di non avere altro destino che l’amore per lei; promette di far rivivere Troia a Cartagine, ma ubbidisce senza discutere a uno spirito maligno dalle sembianze di Mercurio, che lo invia a Roma. Ne sono artefici le streghe. Sono come quelle di Macbeth. In loro non c’è nulla che non si trovi già nel cuore umano. «La distruzione / è il nostro piacere, / La gioia altrui è il nostro gran dolore, / Elissa (Didone) sanguinerà stanotte, / E Cartagine brucerà domani!», cantano esaltate e lo stesso, senza avvedersene, fa il popolo che vaneggia di futuri trionfi e persino Belinda, fedele sorella e confidente di Didone, che crede eterno l’amore promesso dall’eroe. Se ne avvedono i marinai di Enea in partenza («prendete commiato dalle vostre belle con la promessa del ritorno, ma senza pensare di rivederle più», dice il loro capo). Una sinistra gioia collettiva accompagna prima gli illusori sogni di gloria, poi la rovina. Eppure nella musica e nel testo non c’è disprezzo, né invettiva contro chi si abbandona a questa pulsione auto-distruttiva, semmai commiserazione. Didone è l’unica, nel tripudio generale, a prevedere il corso degli eventi e a temere per lo stato. È anche l’unica ad amare davvero, non l’eroe, ma lo sventurato: «Il mio cuore, oppresso / dalle tempeste del fato, / apprese ad avere pietà delle miserie», confessa. Sente straniera la pace, sa che Enea sarà la sua rovina eppure nemmeno lei lancia invettive. Sente la morte «un’ospite gradita». Con l’ultimo lamento rivolto a Belinda si congeda. Su un cromatico basso ostinato che circoscrive la tonalità funerea di sol minore, la tonalità che la contraddistingue e su cui si chiude l’opera, il grido «ricordami» su una sola nota ripetuta è straziante. Lo strazio aumenta con la vana e contraddittoria preghiera che segue: «ma dimentica la mia sorte». Poi muore senza doversi uccidere, per naturale conseguenza degli eventi. È il corpo di Didone morta che interrompe ogni tripudio e riconduce tutta la comunità al dolore. Un dolore universale che permette ai cartaginesi di ravvedersi o, almeno, permette al pubblico di immaginare che un simile ravvedimento sia possibile per le guerre di religione dell’epoca di Purcell e per quelle d’altro genere di oggi.

Spettacolo di corte grandioso per nascita, ma melodramma in miniatura per tradizione, Dido and Aeneas si adatta a entrambi i contesti. Il Verdi di Muggia è un piccolo teatro, con un piccolo palcoscenico, senza buca per l’orchestra, che ha imposto, di necessità una regia essenziale. Caterina Trevisan, titolare della cattedra di arte scenica, che ha firmato la regia, e Kamilla Karginova, che ha curato le scene e i costumi, hanno predisposto una serie di pedane, più o meno inclinate e di diversa altezza per movimentare gli spazi dell’angusta scena. Così i solisti e il coro, che li accompagnava nella parte centrale della scena o si affacciava dagli angoli del palco con movimenti limitati ma curati, non sono mai parsi statici. La proiezione di dipinti di Marina Santrack, ispirati alle tappezzerie di William Morris e allusivi degli ambienti in cui si svolge l’azione (la sala di un castello, un luogo ameno nel bosco), finivano per colorare le scene sopraelevate e i costumi (larghi panni sistemati come tuniche addosso ai cantanti e al coro; chiari, quelli delle ninfe e dei pastori; neri quelli della maga e delle streghe). In tal modo la scena (nelle intenzioni della regista ispirata alle atmosfere mediterranee del fotografo Wilhelm von Gloeden) è parsa allusiva di un’antichità senza tempo piuttosto che storicamente determinata.

L’orchestra, essenziale anch’essa, collocata in scena, composta da serie e affiatate ragazze (Kristina Ivanović Mlinar e Teodora Kaličanin, violini; Ecem Eren, viola; Iryna Bobyreva, violoncello; Andrijana Ramović, contrabbasso), integrata dal bravo Andrea Furlan, maestro al cembalo, e diretta con autorevolezza da Niccolò Morello, è parsa sempre in buona sintonia coi cantanti e col coro preparato da Francesco Castellana (Caterina Trevisan e Martina Spessot, soprani; Marina Lombardi e Giusy Silanos, contralti; Nicola Pisano e Giacomo Segulia, tenori; Patrick Magnarin e Alessandro Migliorin, bassi). Una direzione d’orchestra rigorosa: non virtuosistico ma espressivo lo stacco dei tempi veloci (per esempio quello del secondo movimento della sinfonia iniziale o quello dell’ostinato di Belinda al centro dell’opera), appassionato quello dei tempi più lenti; equilibrato il rapporto fra gli uni e gli altri; ben calibrato il peso sonoro di strumenti, coro e solisti. A vestire i panni di Didone, centro vocale e drammatico dell’opera, Tamara Mirzoyan. Dopo un minimo di timore iniziale la sua interpretazione ha acquistato spessore nel corso della rappresentazione fino al magnifico congedo, When I am laid in earth, eseguito in modo struggente e efficace. Francesco Scalas, con la sua voce potente, ha ben reso la vanagloria e la mutevolezza di Enea. Belinda è personaggio complesso. Si lascia sedurre, come tutti, dalle vane speranze suscitate da Enea, ma è anche sincera compagna, fino alla morte della sorella Didone. Marija Kozlova ha interpretato con vivacità e buona presenza scenica la parte spensierata del suo carattere e con misura quella più intima. Afona, sgraziata, maschile, sguaiata: numerosissime sono le alterazioni impiegate per dar voce alla Maga, quando entra in scena all’inizio del secondo atto. Giulia Diomede invece ha chiamato a raccolta e poi guidato la demoniaca adunata delle sue «indocili sorelle» con voce sonora e piena: un suggestivo effetto. Bravi anche gli altri interpreti: Petra Grace Zoppolato (Prima strega), Claudia Floris (Seconda strega), Margarita Beschastna (Spirito), Mirko Grgorinic (Primo marinaio). Da ricordare anche i maestri collaboratori (Jacopo Cavazzini, David Kulikov e Elian Remigio) e il direttore di scena Sarvez Farghani Seyedeh.

Una rappresentazione intelligente, che interpreta e non stravolge il testo. Applausi fragorosi e meritati al termine.