I film di maggio

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L’avenir, Infedelmente tua, Song to son, Manhattan,

Lettera a tre mogli, Scappa (get out), Sui marciapiedi, Una settimana e un giorno

di Pierpaolo De Pazzi

 

Maggio si apre come una finestra verso il futuro con L’avenir, Le cose che verranno (Mia Hansen-Løve, Francia 2016) e subito una domanda spiffera: perché hanno voluto realizzare questo film? Ininterrotto è il cicalare del Logos fra i dotti e borghesissimi filosofi protagonisti, che seguiamo stancamente per 100 stiracchiati autoreferenziali minuti, tra belle case di villeggiatura, lussuosi appartamenti e raffinate case editrici parigine. Inutilmente attendiamo da loro un bagliore di umanità, o almeno una traccia di ironia dalla regista, fino ad approdare ad un finale sconcertante (futuro=nuova vita, cioè nipotino per la nonna appena lasciata dal marito). La Huppert? ovviamente divina e sempre uguale a se stessa. Un consiglio: se vi interessa un film sul tempo e il futuro, guardatevi piuttosto Boyhood di Richard Linklater. C’è da augurarsi che il film non rispecchi il menage familiare della regista col marito Olivier Assayas. A proposito, dopo Personal Shopper, aspettiamo il suo riscatto con la co-sceneggiatura di D’apres une histoire vraie, il film di Polanski, presentato a Cannes fuori concorso.

 

Ancora delusi da proposte attuali troppo osannate dalla critica, bisogna ringraziare i progetti che restituiscono al cinema capolavori del passato. Non solo quello della Cineteca di Bologna: a maggio fiorisce la proposta “Happy Returns, i grandi classici tornano in sala”, del Lab 80. Attivo dal 1956 come Cineforum di Bergamo, si tratta dell’associazione di cultura cinematografica più longeva d’Italia.

Questa iniziativa ci regala il brillantissimo Infedelmente tua (Preston Sturges, USA 1948). È una commedia riuscitissima, che alterna diversi stili comici, dal gioco linguistico/culturale sulle differenze tra America e Gran Bretagna al calembour, dalle gelide e memorabili battute alla slapstick comedy al suono di crescendo rossiniani. Non è, non vuole essere una commedia degli equivoci, malgrado proprio un equivoco porti il direttore d’orchestra Rex Harrison a credere infedele la bella e giovane moglie Linda Darnell. È piuttosto una commedia nera sul sospetto che annulla la percezione del reale: siamo in anni di maccartismo e la presenza nel cast di attori che in quegli anni avevano problemi con la famigerata Commissione per le attività anti-americane lascia credere che Sturges volesse in qualche modo alludere all’aria che stava girando (allora?) in America.

 

A maggio esce anche Song to song (Terrence Malick, USA, 2017). Il regista, inizialmente poco prolifico (5 film tra il 1973 e il 2011), negli ultimi sei anni ha sfornato 4 film. L’ultimo è, come la moda, immagine che vuole vendere un’idea, ma è difficile capire quale

Il soggetto è un triangolo amoroso, raffigurato in modo spiazzante, perché anche questa volta Malick ignora la linearità narrativa e ci presenta dei personaggi archetipici, spostandosi avanti e indietro nelle loro vite, senza fissare una cronologia precisa, così che il ritorno e il movimento sono i veri protagonisti del film. Sembra intendere così che la salvezza del cinema è tornare al proprio specifico, all’origine di immagine in movimento (tempo in azione). Se la riflessione più profonda del film è quasi meta-cinematografica, il messaggio esplicitato da commenti off piuttosto superficiali, che incoraggiano a tornare alla natura e agli affetti più profondi, rischia di deludere un po’ gli spettatori.

Già, gli spettatori, ma chi sono? Il cast, con attori belli, anzi “fighi” e alla moda (Michael Fassbender, Ryan Gosling, Rooney Mara, Natalie Portman, Cate Blanchett), l’ambientazione musicale e la presenza di rock star come Iggy Pop e Patti Smith, tutto questo attirerà un pubblico molto giovane, che potrà rimanere spiazzato da un film così. Noi, che il cinema lo amiamo, da un regista così ci aspetteremmo qualcosa di più.

 

Ancora la Cineteca di Bologna per il Cinema ritrovato (al cinema) ci fa rivedere Manhattan (Woody Allen, USA 1979), un film girato in uno splendido bianco e nero, in formato panoramico, capace di far diventare New York, con le sue strade, i suoi ponti, grattacieli e parchi, protagonista della vicenda, alla pari della musica di Gershwin, mentre si srotola la vicenda amorosa del protagonista con le sue due amanti. Una delle migliori prove degli anni ‘70 del maestro americano, sicuramente la più ottimista della carriera, molto autobiografica.

 

Veramente interessante Lettera a tre mogli (Joseph L. Mankiewicz, USA 1949), per il progetto Happy Returns! di Lab 80 film. Fu doppio oscar, per regia e sceneggiatura non originale. La trama è semplice, tre amiche riflettono sulla possibile crisi del proprio matrimonio, scatenata dalla volontà di una quarta donna, destinata a restare fuori campo. Colpisce però la costruzione della vicenda, per la presenza della voce narrante fuori campo di Addie Ross, archetipo e fantasma di donna di classe con cui le tre protagoniste nei lunghi flashback identificano le proprie paure ed invidie, ma con cui si può dire si identifichi anche Mankiewicz. Infatti Addie è il regista interno al film, che innesca con la sua lettera la trama degli eventi, come deus ex machina. Colpisce la visione sociale: la commedia è amara, la condizione femminile è analizzata senza sconti, come cartina indicatore delle tensioni familiari e sociali in un momento di veloce cambiamento verso un modello di arrivismo iper-consumistico, poi esportato ovunque, coi risultati che sappiamo. Impressiona oggi vedere tante sigarette e alcool a fiumi. Sono simboli di benessere che tornano quasi in ogni inquadratura, una specie di psicofarmaco socialmente accettato, se non imposto. Il film, rispettoso formalmente dei dettami produttivi hollywodiani, mina dall’interno le false sicurezze artistiche e sociali dell’epoca, fragili come il bicchiere di cristallo stizzosamente spezzato nell’ultima scena dal fantasma dell’invisibile Addie.

 

Sorprendente fenomeno da box office che piace alla critica, ci incuriosisce Scappa, Get Out (Jordan Peele, USA 2017). Il debuttante regista, comico televisivo di successo in USA, cita tra i film che lo hanno influenzato La fabbrica delle mogli, Indovina chi viene a cena? e La notte dei morti viventi, quest’ultimo probabilmente per un omaggio al genere horror politico.

Il film non delude, iniziando proprio come Indovina chi viene a cena, con un protagonista che ricorda Sidney Poitier anche fisicamente, ma poi diventa sempre più thrilling. Tutto è giocato sul far rivivere allo spettatore la crescente pressione psicologica di un ambiente istintivamente razzista: il dogma della superiorità WASP è connaturato ai protagonisti, al loro modo di fare, di vestire, di comportarsi in società, anche se voterebbero Obama tutta la vita. Il regista è bravissimo a far assumere allo spettatore il punto di vista del giovane Chris, che riconosce da indizi sempre più numerosi e violenti di essere vittima di una sorta di complotto. Voglio dare un solo esempio, a livello linguistico, di quel che intendo: come in ogni horror ambientato in una casa meno ospitale del previsto, c’è una porta chiusa che nasconde un segreto. È quella della cantina e il padrone di casa dice a Chris che cela «un’infestazione di muffa nera». Ed ha appena concluso l’ambiguo discorso sul fatto che i “cervi” siano da eliminare perché altrimenti diventeranno troppo numerosi. Questi doppi sensi e gaffe, diventando sempre più frequenti ed evidenti, ribadiscono la distanza tra bianchi, ricchi e potenti, e neri che si possono rendere utili solo per il proprio vigore o per qualche specifico talento, certamente a patto di rinunciare del tutto alla propria cultura e personalità, per accettare quelle dei bianchi quasi come fossero dei porta-innesti.

In generale è riuscitissima la prima parte del film, piena di indizi che vengono man mano ripresi e chiariti dallo svolgimento della trama in modo molto coerente. Trovo meno riuscito il finale, che paga forse un tributo troppo alto agli standard del genere horror (in particolare al revenge movie) ma comunque sempre in termini accettabili da qualunque pubblico e con uno humor che evita toni troppo farseschi.

 

Sui marciapiedi (Where the Sidewalk Ends, Otto Preminger USA 1950): LAB 80 ripropone un noir psicologico asciuttissimo. Ha senso riassumere la trama di un film così? Una scarna sceneggiatura accompagna la discesa del detective Dixon (Dana Andrews) verso il riconoscimento della propria colpa e la ricerca dell’espiazione. La colpa è l’omicidio preterintenzionale di un violento, ma è anche il peccato originale, il destino ereditato da un padre criminale, che è stato anche il maestro di Scalise (un bravissimo Gary Merrill), il suo antagonista criminale nel film. C’è la colpa e c’è, forse, la possibilità della redenzione: la promette il sorriso indimenticabile di Morgan Taylor-Paine (Gene Tierney) a rappresentare la speranza, o l’illusione di un futuro diverso.

È un noir teso, una pellicola girata senza un grande budget, senza sparatorie (diversissimo in questo da altri grandi gangster movie come La furia umana), con una fotografia delle strade di New York (Times Square, Washington Heights e il ponte George Washington, Manhattan) che non può non richiamare le foto di Weegee, che tanto hanno influenzato questo genere americano.

Di questo film porterò con me almeno una scena, la delicatezza con cui Dixon abbassa il mento roccioso, modellato a forza di pugni, per posare le labbra sul volto più bello della storia del cinema, senza disturbarne il sonno. Così Gene Tierney è lasciata premurosamente nella penombra protettiva e Dixon va incontro al suo destino, là dove finisce il marciapiedi.

 

Una settimana e un giorno (Asaph Polonsky, Israele 2016) è il film del mese. Una vera rivelazione quella del suo debuttante regista, e per me anche quella del protagonista, Shai Avivi, che interpreta magistralmente in questa storia tragica e grottesca il ruolo di Eyal Spivak. È un uomo di mezz’età che, con la moglie Vicky, fronteggia il lutto per la perdita dell’unico figlio venticinquenne. Il lutto per l’ebraismo dura una settimana (Shiva): un luogo (la casa) e un tempo dedicati anche formalmente all’elaborazione di questo drammatico momento. Nessuna morte, certo, può apparire sensata per chi ama chi non c’è più, ma il lutto più insondabile è quello che tormenta i genitori per la perdita di un figlio.

Ci sono diversi modi per reagire, e nel film vediamo Vicky sforzarsi di tornare alla vita di prima e spingere il marito Eyal a fare altrettanto, ma senza successo. Eyal rifiuta anche semplici compiti, seguendo un percorso di rinascita solo apparentemente demenziale, che lo porta a incaponirsi nella ricerca della coperta del figlio, persa in ospedale, fumare marijuana con Zooler, il figlio dei vicini, addirittura tentare di sabotare un funerale al cimitero, dove finisce per ascoltare casualmente un monologo funebre rivelatore. Abbandonandosi al caso, all’istinto e alle sensazioni trova alla fine un conforto e anche la tenerezza della moglie, ed è un sorriso a rinsaldare la loro unione.

Ci sono diversi modi per tentare di rendere sullo schermo un lutto così grande, un’esperienza così estrema. Si può cercare di dire tutto, rappresentando pianti irrefrenabili, mettendo in scena lo scacco dei protagonisti, psicanalizzandoli. Il giovane Polonsky no, vuole riproporre quello che lui stesso dice di apprezzare del cinema, la possibilità di far ridere e commuovere assieme. Si serve di bravi attori, che costruiscono la trama interagendo l’uno con l’altro, senza indulgere a nessun birignao da italico mattatore e rendendo il tutto scorrevole e naturale.

È così che Eyal può trovare in Zooler e in una bambina troppo piccola per assistere la madre malata di cancro due improbabili, umanissimi spiriti guida. Assecondando l’immaginazione della piccola, nella scena più bella del film, i due uomini in ospedale mimano sulla madre malata una finta operazione chirurgica, folle e clownesca, con cui asportano il male e lo scacciano con la forza della fantasia e dell’amore per la vita.