Il cinema in posa

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Il grande Cinema a Trieste negli anni del dopoguerra

di Paolo Cartagine

 

A Trieste, a Palazzo Gopcevich, è visitabile fino al 13 ottobre 2019 la Mostra “Il Cinema in posa”, un’ottantina di fotografie bianconero scattate soprattutto a Trieste dal secondo dopoguerra alla metà del ’60, cronaca di intensi rapporti fra settima arte e Città in anni irripetibili.

Un’esposizione che nasce da un’attenta ricerca storica curata da Claudia Colecchia – responsabile della Fototeca e Biblioteca dei Civici Musei di Storia e Arte del Comune di Trieste – con immagini (selezionate dai fondi depositati nella Fototeca stessa) arricchite da didascalie e contestualizzazioni, articoli allora apparsi sulla stampa locale, progetti di sale cinematografiche, e altri inerenti documenti di estremo interesse conservati negli archivi comunali. Oltre a un ottimo catalogo, a corredo ci sono una videoproiezione recente, una Rolleicord (macchina fotografica biottica e flash a lampada monouso, strumenti al tempo privilegiati dai fotoreporter) e lo splendido proiettore Victoria VI-C per film 35 mm costruito nel ’50 dalla Cinemeccanica di Milano con obiettivo cinemascope.

Dunque non solo un album di foto a tema, ma un sistema informativo integrato (parole, immagini, oggetti) in grado di ravvivare i ricordi di chi c’era, di incuriosire le generazioni più giovani, di far riflettere sul valore degli archivi pubblici e, più in generale, sui cambiamenti della nostra società negli anni che ci separano da quel periodo.

Impossibile nominare i tantissimi protagonisti dalle due parti della macchina fotografica. Tra i fotografi, in particolare, Adriano de Rota, Ugo Borsatti, Fulvio Bronzi, Giorgio Gherbavaz di Giornalfoto. Tra le star, Claudia Cardinale durante le riprese a Trieste di Senilità, protagonista con Anthony Franciosa della trasposizione del romanzo di Italo Svevo firmata da Mauro Bolognini. La première si tenne al Verdi il 28 febbraio del ’62 con una raggiante Cardinale nel palco d’onore; sorprendenti due immagini nel foyer, una sorta di controcampo con la Cardinale in primo piano, in cui appaiono i fotografi Bronzi, Gherbavaz e Erna Rausniz Lasorte.

Altre foto sono dedicate a personaggi noti, fra cui Fellini, de Sica, Ulmer (film-maker negli USA di B-movie, oggi studiato a livello internazionale), Joan Crawford, Sofia Loren, Silvana Mangano, Rosanna Schiaffino, Victor Mature, Umberto Eco; e i “triestini” Ketty Burba, Fulvia Franco, Federica Ranchi, Gianni Garko, Giorgio Listuzzi, Livio Lorenzon, Tiberio Mitri, Mario Valdemarin, Tullio Kezich e Tino Ranieri. E poi il pubblico di tutte le età e le classi sociali ad anteprime e inaugurazioni (con Tiziana Benussi piccola disinvolta madrina che taglia il nastro del cinema Fenice nel ’54), al Festival della Fantascienza in Castello a San Giusto, in coda per il biglietto o in sala per la proiezione.

Non mancano immagini dei cinematografi, quasi nessuno più in attività o convertiti ad altri scopi: Alabarda, Arcobaleno, Astra, Capitol, Cristallo, Grattacielo, Impero, Nazionale, nonché il Teatro Nuovo demolito per edificare una struttura pubblica.

Il potere documentativo del reportage fotografico (peraltro mai oggettivo in quanto frutto di inevitabili/irreversibili scelte soggettive dell’autore, motivo per cui non esiste la fotografia di “grado zero” neutrale e asetticamente informativa) ci dà modo di vedere direttamente e senza l’intermediazione delle parole come se fossimo lì anche noi, partecipi oggi di situazioni e avvenimenti di un periodo in cui cominciava ad affacciarsi la civiltà dello spettacolo. Dunque un viaggio nella memoria partendo dalle tracce visive di un recente passato, virtualmente accompagnati dai consigli di Hugo von Hofmannsthal: “più che sapere molte cose, è importante metterle a contatto, confrontarle per creare nuove relazioni utilizzando l’immaginazione e la sensibilità dello spirito esplorativo.”

I visitatori sono così indotti ad autoposizionarsi nella Storia di Trieste utilizzando le molteplici chiavi di lettura contenute nella Mostra che, in primis, proietta l’osservatore nelle micro-storie narrate dalle foto, istantanee di realtà con l’asciuttezza del racconto breve: appropriatezza, accuratezza, sintesi e chiarezza. Le didascalie sono indispensabili per completare ciò che il linguaggio figurale non può dare.

Che cosa si scopre soffermandosi sulle foto?

Innanzitutto l’abilità dei fotografi nell’aver saputo prevedere e cogliere al volo attimi irripetibili, preservandoli per i nostri sguardi futuri. Tenendo conto che la pellicola non faceva vedere da subito il risultato e che il numero di pose era limitato, risalta la capacità degli autori di dominare, in frangenti unici in rapida evoluzione, macchine fotografiche prive dell’esposimetro e delle ulteriori facilitazioni dei moderni dispositivi elettronici. Insomma, gli autori dovevano saper pre-vedere lo sviluppo della situazione, regolare manualmente i comandi e agire con straordinaria prontezza di riflessi. Niente ripensamenti, né possibilità di tornare indietro e rifare.

Si percepisce inoltre che i fotografi avevano posto massima attenzione alle inquadrature, indispensabili disgiunzioni esclusive dell’irrilevante rispetto al necessario e sufficiente. Infatti, anche con la fotografia, comunicare bene significa sfrondare l’esistente dalle inessenzialità, un’operazione di ripulitura e sottrazione per non riprodurre indistintamente un inutile “tutto”.

L’ideale connessione fotografia – fotogramma – film insita ne “Il Cinema in posa” è messa a fuoco dai diversi autori con strategie diversificate, comunque rapportabili al realismo della straight photography (fotografia diretta) che punta alla testimonianza visiva di momenti e accadimenti. Immagini da fruire con empatia, anche per portare in luce dettagli o elementi marginali quasi sottotraccia che – entrati casualmente con lo scatto al di là delle intenzioni dell’autore che era concentrato sul soggetto principale – contribuiscono a vivificarle, e a stabilirne cornice e contesto.

Due esempi di incipit di lettura che ciascun osservatore potrà completare ed estendere a proprio piacimento.

Un’immagine riguarda la pubblicità de “I Dieci Comandamenti” di De Mille sulla facciata del Grattacielo (aprile ’58). Non si possono non notare i binari del tram in Via Battisti e, in sosta a bordo strada, un carretto a mano con un collo sul pianale, una Fiat 1100 scura e una Topolino chiara; sul marciapiede un alberello striminzito e alcuni passanti. Senza nostalgia, oggi non è più così.

Tema dell’altra foto (novembre ’62): per un film di Fellini, sei signore sono al botteghino del Teatro Nuovo, mentre un’altra si accinge a entrare. Imperdibile la contestuale descrizione degli abbigliamenti (pellicce, soprabiti, cappellini e scarpe).

Dunque, soltanto grazie all’osservazione consapevole e personalizzata del lettore, figure e oggetti sembrano risvegliarsi dalla loro immobilità fotografica, acquistano vita, diventano interpreti delle loro storie perché, come ha scritto Giacomo Leopardi, “l’anima immagina oltre il visibile.”