Recondita armonia

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Tosca di Puccini è ritornata al “Verdi” di Trieste 119 anni dopo la prima volta

di Luigi Cataldi

 

Tosca è tornata al Verdi di Trieste lo scorso 4 marzo, una data simbolica che cade esattamente 119 anni dopo l’esordio triestino del 1903, a tre anni di distanza dalla prima nazionale romana del gennaio 1900. Sull’Indipendente del 5/3/1903 Gian Giacomo Manzutto (Umago 1861 – Trieste 1933), avvocato, musicista, critico musicale, wagneriano militante accesissimo, ne registra il successo (per la bella prova dell’orchestra e dei cantanti), ma stronca la composizione di Puccini: pura speculazione commerciale sulla fortuna del dramma di Victorien Sardou (1887) da cui l’opera deriva. Ma è possibile, si chiede, «che ciò che è falso, ributtante, truce e gonfio sulle scene di prosa divenga bello soltanto perché rivestito da note musicali? […] Qui artistica sincerità ben poca».

Il soggetto, che tanto dispiacque al critico triestino, ha un nucleo in comune con la shakespeariana Misura per misura. Un uomo è condannato a morte da un feroce aguzzino per aver nascosto un evaso. Una donna che lo ama ne chiede la grazia. Il persecutore la concede a prezzo di una notte d’amore con lei, ma, con l’inganno, fa ugualmente giustiziare il condannato ed è da lei ucciso.

È il 14 giugno 1800, giorno della battaglia di Marengo che inaugura la seconda campagna napoleonica d’Italia. L’azione si svolge in un traballante Stato della Chiesa, rimesso in piedi dall’esercito del Regno di Napoli, dopo la caduta della Repubblica Romana del settembre 1799 e con il papa Pio VII da poco eletto in esilio e non ancora rientrato. L’uomo finito in mano all’aguzzino è il pittore Mario Cavaradossi, che ha favorito l’evasione dell’amico Angelotti, patriota della spenta Repubblica Romana. Floria Tosca, cantante famosa e amante di Mario, è la donna che si sacrifica per l’amato, ma è anche colei che, per gelosia, inconsapevolmente, lo ha condotto in trappola. Il dominatore dell’azione è però lo spietato capo della polizia papalina Scarpia. Puccini lo caratterizza con un leitmotiv di tre inquietanti e poderosi accordi disposti, il primo e l’ultimo, a distanza di quinta diminuita, intervallo ostracizzato come diabolus in musica fin dal Medioevo. Il motivo risuona sinistramente prima della comparsa dell’aguzzino, all’aprirsi del sipario, si ode ripetutamente anche dopo la sua morte, e connota di un cupo clima di terrore e crudeltà tutta l’opera. Scarpia gioisce per le sofferenze dei miserabili che finiscono nelle sue mani; prevede, strumentalizza e disprezza le loro passioni; preferisce la violenza: «Tal dei profondi amori / è la profonda miseria. / Ha più forte / sapore la conquista violenta / che il mellifluo consenso». Eppure non è lui ad aver pervertito l’ordine del mondo, anzi di quel mondo malato e senza redenzione egli è il frutto. La Roma, che Puccini rappresenta attraverso le sue voci e i suoi suoni (le campane, le cerimonie sacre, gli stornelli, le recite dei salmi, le cantate nei palazzi signorili) è rosa dal male: un potere dispotico la governa, un clima di sospetto e di oppressione ne ammorba l’aria. Vi dominano gli aguzzini, i delatori, i persecutori, mentre coloro che combattono per la libertà, affollano le carceri e pendono dai patiboli. Tre spazi caratterizzano la città: la Chiesa di Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e la piattaforma di Castel Sant’Angelo. Non colore locale, ma luoghi simbolici di oppressione: morale (la bigotteria, che si avverte nei commenti del sacrestano, ostile all’amore di Mario e Floria), religiosa (la sfarzosa e mondana cerimonia del Te deum) e politica (la persecuzione, la detenzione e la fucilazione degli oppositori). Nessuna luce di redenzione. Il pessimismo di Puccini, di Illica e di Giacosa (che hanno predisposto un testo magistrale) è grande e sincero. Scarpia ne è l’incarnazione. La propria volontà di dominio è per lui l’unica legge dell’universo, i suoi appetiti (catturare gli oppositori, uccidere i rivali, conquistare con la violenza gli oggetti della sua «brama») sono l’unica ragione di vita da perseguire con tutta la forza che lo stato ha posto nelle sue mani e con tutta la raffinata violenza di cui è capace. Cavaradossi, cuore sincero, amante della vita terrena (E lucevan le stelle è la sua preghiera laica), è sua facile preda. Di Tosca Scarpia conosce e strumentalizza la gelosia. La grande diva è abituata in teatro, dove chi muore si rialza per ricevere gli applausi. Ingenua fino allora, ha vissuto per l’arte, ha fatto il bene quando ha potuto, è stata devota a dio: «Nell’ora del dolore / perché, perché, Signore, / perché me ne rimuneri così?» chiede nella sua disperata preghiera (Vissi d’arte). Eppure, posta di fronte alla brutalità dell’esistenza, costretta ad assistere alla tortura di Mario e ad accettare di vendersi per salvarlo, è in grado di usare la stessa forza esasperata che Scarpia ha suscitato in lei per reagire, per divenire, lei sincera credente, un’assassina e infine per sottrarsi ai persecutori col suicidio, invocando non il perdono di dio, ma il castigo per Scarpia: «O Scarpia, avanti a Dio!», urla prima di gettarsi nel vuoto.

Hugo de Ana, regista argentino fra i più grandi della scena internazionale, ha curato la regia, le scene e i costumi per questo allestimento, nato per il teatro di Bologna. Proiezioni su velari di militi che inseguono fuggiaschi preannunciano il clima persecutorio dell’opera all’inizio di ogni atto. Frammenti giganteschi di statue (un braccio che regge un’asta, una mano che porge una candela), come abbandonati o incombenti sulla scena, in diverse posizioni, evocano un senso di abbandono e di oppressione in cui persino il crocifisso enorme, inclinato per gran parte del primo atto, pare un oggetto dimenticato. Le luci di taglio lasciano ampie zone d’ombra e illuminano sinistramente parti della scena. Altre proiezioni, di scorci di chiese barocche, di dipinti (ad esempio un san Sebastiano associato ad Angelotti), di statue e persino di una gabbia di tubi innocenti, sottolineano i diversi momenti dell’azione. Il regista, che più volte si è misurato con Tosca, mostra in ciò un profondo rispetto del testo sia musicale che poetico. La sua lettura non esaspera i toni dell’opera, già a tratti espressionistici, né nella condotta scenica dei cantanti, né nella scenografia, ma fa emergere la drammatica mancanza di luce e di speranza che è alla base dell’azione.

Christopher Frankiling ha aderito a questa impostazione guidando con mano sicura l’orchestra del Verdi, efficace tanto nelle poderose scene d’insieme (come il Te deum), quanto nei momenti lirici, e mostrando una buona intesa con le voci, col coro del Verdi diretto da Paolo Longo e con i Piccoli cantori della città di Trieste diretti da Cristina Semeraro. Applauditissima, e con pieno merito, Maria José Siri ha dato vita a una Tosca di umane debolezze nel primo atto (la gelosia, la civetteria) e di grandi, esasperate passioni di fronte al suo persecutore, con misura e con determinazione nei momenti drammatici. La sua voce, solida negli acuti, morbida nei fraseggi, ha saputo rendere vivi i turbamenti di un personaggio, abituato alla vita lieta, che scopre il male e, fieramente, come può, vi si oppone. Davanti a lei lo Scarpia di Alfredo Daza è un persecutore violento, ma raffinato, che ordina senza bisogno di eccessi se non quando pregusta l’appagamento delle sue brame («L’uno al capestro, / l’altra fra le mie braccia») nel monologo interiore durante il Te deum. Là, trascinato da un sé violento e incontenibile, urla: «Tosca, mi fai dimenticare Iddio!» Poi, incredulo, scoprendosi uomo fragile di fronte alla morte, implora, inascoltato, aiuto. Daza mostra di aver fatto insieme al regista e al direttore un convincente lavoro sul personaggio. Mikheil Sheshaberidze è un Cavaradossi un poco statico, ma imponente e dalla voce potente, che ha ben reso sia nei toni enfatici (come l’uscita di scena in catene al grido di «vittoria» alla fine del secondo atto) che in quelli appassionati (soprattutto Recondita armonia). Dario Giorgelè ha evitato i toni caricaturali nell’impersonare il sacrestano e al tempo stesso ne ha sottolineato il carattere moralistico, timoroso e supino al potere. Anche gli altri personaggi, lo sfinito Angelotti (Cristian Saitta), lo zelante Spoletta (Motoharu Takei), il torturatore Sciarrone (Min Kim), sono stati convincenti nelle loro parti.

Puccini, Illica e Giacosa hanno saputo offrire una desolante rappresentazione del mondo come «atomo opaco del male» (così lo definì Pascoli loro contemporaneo), in cui lo scatenarsi della violenza lascia solo vittime e nessun vincitore. Sul palco il sovrintendente Giuliano Polo, alla presenza del sindaco e dei lavoratori del teatro, la cui facciata era illuminata dai colori della bandiera ucraina, ha invitato al raccoglimento per la tragedia in corso. Sapremo trarre insegnamento da quest’opera magistrale?

[Rappresentazione vista: 4/3/2022]

 

Recondita armonia