Monaco, Dubček, Palach e altre storie

| | |

Con l’elezione di Dubček si apriva quello che potremmo chiamare il “triennio d’oro” del socialismo mondiale e l’intervento sovietico dell’agosto riuscirà solo a incrinarlo ma non a spezzarlo

di Francesco Leoncini

 

È quasi passato inosservato nell’anno degli anniversari in “8” il Patto di Monaco con il quale le potenze democratiche occidentali, Francia e Gran Bretagna, capitolarono davanti alle dittature nazifasciste cedendo a Hitler parte dell’unico Stato a struttura parlamentare sopravissuto a sud del Baltico e ad Est della Svizzera.

L’Accordo, intervenuto alle spalle del governo di Praga, fu il vero spartiacque della storia del “secolo lungo”, di quel Novecento che inizia nel 1871 con la fondazione del II Reich, la cui forza dirompente sovverte l’equilibrio post napoleonico, porta all’egemonia tedesca in Europa centrale e allo scontro nei Balcani sulla linea di espansione verso il Medio Oriente.

Londra e Parigi, assieme a un’Italia presto divenuta ostile a quanto di slavo andava aggregandosi al di là dell’Adriatico, erano state le levatrici delle nuove formazioni nate dalla dissoluzione della Monarchia asburgica, ma dimostrarono in questa occasione che erano disposte a giocare sui loro destini con l’unico scopo di salvaguardare i propri (supposti) interessi.

“La catastrofe di Monaco, come scrisse Milan Kundera, fu un durissimo colpo inflitto alla scommessa storica di tutte le piccole nazioni”. Fu questo l’avvio della Seconda guerra mondiale, non tanto “il famigerato Trattato di Versaglia”, per dirla con l’espressione cara alla pubblicistica fascista, e che forse in quest’anno del Centenario verrà ripetuta.

“Mi hanno venduto come uno schiavo alla Germania, come hanno venduto i negri d’America” disse Jan Masaryk, figlio del grande Tomáš e allora ambasciatore a Londra, rivolgendosi singhiozzando al suo collega sovietico Ivan Maiski.

La Cecoslovacchia subì ulteriori e gravissimi traumi nel corso della sua relativamente breve storia e pur essendo un piccolo Paese tutti ebbero un rilievo assoluto nel più vasto contesto internazionale e segnarono passaggi epocali.

L’ascesa di Alexander Dubček alla segreteria del partito comunista significò ben presto l’avvio di una svolta decisiva nella storia del socialismo.

Era un lungo percorso, culturale e politico, quello che sfociava nella “Primavera” ceco-slovacca del ’68, veniva da lontano quell’aspirazione dei due popoli alla libertà, alla giustizia sociale e alla democrazia.

Per gli slovacchi sicuramente dalla loro forte matrice religiosa, non solamente cattolica ma più propriamente cristiana. Dubček stesso era in qualche modo figlio di quel protestantesimo hussita che si era propagato anche in Slovacchia in seguito alle persecuzioni avvenute in Boemia. Unico leader comunista ad aver contratto il matrimonio con la benedizione di una Chiesa. Ma vi era anche il profondo innesto nella cultura comunitarista e solidarista del mondo slavo.

Per i cechi il discorso è più complesso. Al riferimento alla rinascita religiosa e nazionale tardo medievale va aggiunto il forte anelito verso la trasformazione della società in senso democratico proprio delle avanguardie ceche del primo Novecento, mi riferisco in particolare al poetismo e a Karel Teige. In questi movimenti i contenuti non sono mai strettamente culturali ma più globalmente politici.

Dubček chiarì subito, fin dal plenum del comitato centrale di fine ottobre del ’67, che non si trattava tanto di “aggiornare” il sistema, all’interno del quale egli stesso si era formato, bensì “di realizzare un rivolgimento radicale che porti a essenziali trasformazioni nel lavoro del partito”.

Con la sua elezione si apriva quello che potremmo chiamare il “triennio d’oro” del socialismo mondiale e l’intervento sovietico dell’agosto riuscirà solo a incrinarlo ma non a spezzarlo.

Nell’ottobre dell’anno successivo salirà alla Cancelleria di Bonn il più prestigioso esponente della Resistenza antinazista, Willy Brandt, che si riallaccerà nel suo primo discorso al Bundestag proprio ai contenuti dell’esperienza praghese e nel ’70 verrà eletto alla presidenza del Cile Salvador Allende.

“Non vi siete accorti al cinema o alla televisione, osservava Jean Daniel, il direttore de Le nouvel Observateur all’apertura della “Biennale del dissenso” nel ’77, che Alexander Dubček aveva un po’ lo stesso comportamento fisico di Salvador Allende? […] Uomini che esprimono l’umanità sotto l’aspetto modesto, medio, profondo. E dietro di loro dei movimenti che rispondono all’aspirazione delle masse e alla compiutezza degli individui”.

Jan Palach traeva la sua linfa vitale proprio dall’humus hussita e dalla rivoluzione pacifica che stava trasformando il suo Paese in quei primi esaltanti mesi del ’68 e della quale si era innamorato come tutti i suoi coetanei. Il blocco sociale che sosteneva appassionatamente il “nuovo corso” del partito comunista era proprio la componente giovanile. Essa vedeva in quel passaggio la prospettiva di un futuro ricco di nuove opportunità.

Palach non decise di immolarsi contro i russi, l’avrebbe dovuto fare prima quando i carri armati erano entrati in Cecoslovacchia, ma contro l’arrendevolezza della leadership politica e il voltafaccia di tanti esponenti culturali che avevano aderito alla “Primavera”.

Possiamo definire il suo gesto come “il moderno manifesto della fede nell’uomo”. Non era la sua una fiamma che portava alla consunzione, alla morte, ma che doveva illuminare i suoi concittadini, e il messaggio andava ben al di là. Era il messaggio affinché l’uomo nella sua essenza primigenia non scomparisse, affinché questo soggetto così ricco di potenzialità, con il suo anelito di libertà, con le sue “fedi”, con le sue aspirazioni profonde, con i suoi ineludibili bisogni materiali non venisse travolto dalla brutalità della violenza.

E invece a poco a poco fu travolto, prima, nel suo stesso Paese con la “normalizzazione”, poi con il trionfo in tutto il mondo dell’ideologia neoliberista e la luce di Palach fu l’ultimo segnale d’allarme. Quale cultura e quale democrazia sono infatti possibili se il pensiero è ‘unico’, se la soluzione di ogni problema sociale deve essere valutata secondo gli unici parametri interpretativi dell’economia neoliberista? Essa si declina nelle varie forme di dipendenza, sottosviluppo, repressione, sfruttamento femminile e dei minori, prevaricazione delle grandi potenze e strumentalizzazione dei nazionalismi.

Possiamo dire con Pierre Bourdieu che il neoliberismo è “un programma di distruzione delle strutture collettive capaci di contrapporsi alla logica del mercato puro”. E quindi l’individuo è solo, è ‘con le mani nude’ di fronte alle lobbies finanziarie e militari, di fronte ai beati possidentes di ricchezze stratosferiche capaci di corrompere istituzioni pubbliche o condizionare pesantemente masse disorientate.

François Fejtő, il noto storico ungherese ma francese d’adozione, disse in un’intervista al Gazzettino, quando lo invitai all’Università di Venezia nel ’92: “Dopo l’89, ormai tutto è Balcani”.

Ne è stato un esempio, al recente Trieste Film Festival, la pellicola Donbass, dove una guerra ibrida e di ‘bassa’ intensità sta distruggendo il tessuto umano e dilacerando etnie.

“La mia preoccupazione principale e il soggetto del mio film, afferma il regista bielorusso Sergej Loznica, è il tipo di essere umano prodotto da una società dove regnano l’aggressività, il decadimento e la disintegrazione”.

Di questo abbiamo avuto tragica testimonianza anche in Izbrisana [I cancellati], tratto dall’omonimo romanzo di Miha Mazzini, quando l’arroganza di uno Stato che vuole autoaffermarsi distrugge la vita delle persone. La neonata Repubblica di Slovenia con un perfido provvedimento cancellò i diritti di decine di migliaia di cittadini, per il solo fatto di essere stati ‘jugoslavi’ e la questione non è ancora chiusa.

Ma come può essere chiusa, se milioni di profughi e di migranti sono cancellati da tanti altri Stati nelle acque del Mediterraneo e nei campi di concentramento della Libia, della Turchia, della Grecia, di molte altre parti del globo.

La Shoah va ricordata, sottolineando però che un’altra si ripresenta ancora in mezzo a noi.