L’Italia è il mio amore

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Le fotografie di Leonard Freed al Centro Saint-Bénin di Aosta

Per cinquant’anni ha puntato il suo obiettivo sulla nostra società

di Michele De Luca

 

Quando fra il 1952 e il 1958, mosso dall’interesse per l’arte, compie i suoi primi viaggi in Europa, Leonard Freed (New York 1929 – 2006) scopre la passione per la fotografia – che inizialmente costituisce solo un espediente per procurarsi da vivere – e viene conquistato dall’Italia, un paese con il quale l’artista entra in contatto dapprima nella Little Italy di New York e che diventa presto un luogo di ricerca interiore e, contemporaneamente, un campo di osservazione in cui, come ha detto, “il passato è sempre presente non solo nei luoghi ma nella vita quotidiana delle gente”. Un “colpo di fulmine” che si sarebbe trasformato nell’amore di un’intera vita, considerato che in mezzo secolo è venuto da noi ben quarantacinque volte. Per affermarvi e verificare il suo modo di intendere e praticare la fotografia, al di là dell’impegno più strettamente professionale che gli richiedeva l’agenzia Magnum, alla quale ha prestato il suo ininterrotto lavoro dal 1956, e cioè che “proprio come il poeta dà senso alle parole, così il fotografo lo dà ai simboli visivi”.

Una “poetica” dunque della fotografia che Freed, uno dei più noti e apprezzati fotoreporter americani (di genitori russi), chiariva con altre suggestive riflessioni: “La fotografia deve saper cogliere la vita con tutte le sue emozioni”: il che esclude che il fotogiornalismo e lo stesso mezzo fotografico si identifichino in una asettica e fredda registrazione di fatti e di eventi, di cui si limiti a dare una rappresentazione che si offra ad una lettura univoca e pilotata, per cui, “più la foto è ambigua, meglio è… altrimenti sarebbe propaganda”. Come ci conferma, a dieci anni dalla sua scomparsa, questa mostra al Centro Saint-Bénin di Aosta (fino al 20 settembre) a cura di Enrica Viganò (catalogo Admira, Milano – The Quantuck Lane Press, New York) che, con il titolo “Io amo l’Italia”, propone un’accurata selezione di cento immagini un bianco e nero dedicate alla nostra penisola e realizzate dagli esordi fino alla fase più matura del suo lavoro.

Nel 1952 Freed viene per la prima volta in Europa, dove la sua passione per l’arte, specie per la pittura, lo porta a scoprire la fotografia. Inizia a lavorare come fotoreporter per numerose testate internazionali, pur mantenendo la sua sensibilità artistica. Dopo essere tornato a New York nel 1954, decide di lasciare la famiglia e trasferirsi a Little Italy. Qui ha l’occasione di vivere da vicino i costumi e la quotidianità della comunità di immigrati italiana; la fotografia diventa il mezzo attraverso cui esplorare la propria storia e le origini culturali della sua famiglia. I numerosi soggiorni in Europa segnano per il fotografo americano l’inizio di “una lunga storia d’amore” con l’Italia, che negli anni riesce ad analizzare nei suoi volti più diversi, nella sua lunga e variegata evoluzione umana e sociale.

Più che per l’arte, l’architettura o il paesaggio, insomma più che per l’Italia – si direbbe – l’attenzione di Freed è per gli “italiani”, che il suo obiettivo ha voluto scrutare nel corso di cinque decenni per coglierne l’essenza, l’identità più profonda (anche nelle sue manifestazioni più esteriori e “teatrali”), volendole però narrare al di fuori di ogni stereotipo e restituendo soprattutto l’atmosfera e le emozioni da lui provate al momento dei suoi scatti. Una lettura poetica della realtà, che non manca di essere tale – anzi si fa più partecipe e dolente – quando sono gli aspetti più aspri ed inquietanti della cronaca ad essere raccontati. Freed ha creato alcune delle immagini più dure del fotoreportage, specie raccontando la violenta giungla newyorkese (ricordiamo le violente immagini da lui realizzate ad Harlem); l’Italia, invece – come scrive Michael Miller – “stimolava il suo lato più dolce”.

Mezzo secolo di storia “italiana” (anche di quella che si svolge oltreatlantico nelle strade di Little Italy), quella con la “s” minuscola, e quindi la vera storia, quella “autentica” vissuta giorno per giorno sulla propria pelle dalla gente comune, ci trascorre sotto gli occhi, passando dall’una all’altra immagine di Freed, dalla più insignificante quotidianità all’arte di arrangiarsi negli anni del nostro lungo dopoguerra, dai riti collettivi, all’affacciarsi di un nuovo benessere, all’affermarsi di usanze e abitudini che, in cinque decenni, hanno compiuto un incredibile salto, simboleggiato dall’eccezionalità di un ritratto fotografico per strada, sullo sfondo di una bianca tovaglia (Napoli 1956) alla normalità di un telefonino incollato all’orecchio di una ragazza nella cornice di piazza Esedra (Roma 2002): in mezzo tanti personaggi, anonime esistenze, grande umanità e immenso amore del fotografo che aspira a far diventare, grazie al suo attento e premuroso obiettivo, “storia”, quella che è piccola e remota cronaca di questa o quella regione della nostra Italia.

Al centro dunque della fotografia del reporter statunitense è soltanto l’uomo, nella sua “grandezza” e nella sua miseria, con i suoi sogni, con le sue sfide e le sue contraddizioni, ma sempre nella sua inscalfibile dignità e con gli interrogativi che continuamente ed inevitabilmente pone, e che suscitano la sua vera ed unica curiosità. Ha detto Freed: “Io ho trovato una professione che riesce a darmi alcune risposte. Questa è l’unica ragione per cui non faccio fotografie di moda, perché queste non mi darebbero alcuna risposta”.