CITTÀ VECCHIA A COLORI

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In fotografia, per alcuni decenni, siamo stati abituati a vedere in bianco e nero le immagini di Città vecchia, l’antico centro storico di Trieste caro a Saba che l’ha immortalato in una celebre poesia di Trieste e una donna. Ciò sarà avvenuto in parte per ragioni cronologiche e di costo: solo qualche anno fa, prima dell’avvento della fotografia digitale, stampare a colori era molto costoso e lo si faceva solo quanto comprovate esigenze creative lo imponevano. Ma forse non è solo lì che vanno ricercate le cause della prevalenza di immagini in bianco nero: com’è noto, generalmente un’immagine priva del colore tende ad accentuare la drammaticità di ciò che rappresenta e nel caso delle anguste viuzze che s‘inerpicano per Città vecchia, per decenni lasciate nel degrado e nell’abbandono più totali, appariva quasi ovvio valersi di tale particolarità espressiva, a sottolineare quanto le occhiaie vuote delle finestre rotte, i muri scrostati o crollati, le porte divelte lasciavano immaginare sullo spettrale paesaggio urbano di una nobiltà ormai caduta da secoli.

In una sua personale tenutasi alla Tribbio nelle scorse settimane, il fotografo Livio Crovatto ha esibito una serie di belle immagini a colori del medesimo paesaggio urbano che eravamo abituati a vedere di solito in bianco nero. Ciò è stato reso possibile dai recenti interventi di restauro che hanno tentato di ridare dignità, con risultati non sempre eccellenti, all’antico rione che si arrampica da Cavana alla sommità monumentale del colle di San Giusto: case bonificate e ridipinte di fresco con colori pastelli che rendono cromaticamente articolato quanto si presenta allo sguardo del (raro) passante.

Crovatto ha “giocato” con queste superfici dipinte, aggiungendo in molti casi un ulteriore effetto mediante l’utilizzo della temperatura colore, cogliendo nuove suggestioni cromatiche grazie all’aiuto che gli proveniva dalla luce artificiale, diffusa nelle stradine di quel borgo dall’illuminazione pubblica, erogata per mezzo di lampioncini incongrui nel loro aspetto ottocentesco posticcio e vagamente lugubre. La sapienza compositiva dell’autore ha fatto il resto, isolando particolari di architetture spontanee e il più delle volte rivisitate in fase di ripristino, ottenendo, grazie alla varietà degli allineamenti delle vaste campiture di colore, immagini fortemente dinamiche anche dal più statico dei soggetti, come di norma è il paesaggio urbano.

L’esplorazione reiteratamente compiuta dall’autore alla ricerca di una convincente inquadratura tra le vie di Città vecchia sembra quasi riprodursi nello spazio ospitale della galleria, per il semplice fatto che le immagini esposte sono in qualche modo silenti, al punto che ci si aspetta di udire i nostri stessi passi sul selciato di arenaria delle vie che attraversiamo invece soltanto con lo sguardo che si perde nelle fotografie appese alle pareti. La spiegazione è semplice: avvertiamo il silenzio per la mancanza quasi assoluta di figure umane o animali nelle immagini che ci vengono proposte, a differenza di quanto avveniva un anno fa, con le fotografie che lo stesso Crovatto aveva dedicato alle Rive di Trieste, ben diversamente animate da una costante presenza umana.

Allora, se spostiamo il nostro interesse dall’aspetto meramente estetico per approdare a una lettura più “sociologica” di quanto ci è offerto dall’Autore, comprendiamo che quanto ci troviamo davanti agli occhi è diventato un non-luogo, un’area urbana deprivata della sua vocazione più autentica, quella di essere contenitore del calore della vita, di quanto cioè avesse mosso dentro Saba l’esigenza di fornirci un appassionato reportage (poetico, ma a suo modo anch’esso “fotografico”) che induceva il suo pensiero a “farsi / più puro dove più turpe è la via”.