8 MARZO Due donne per Joyce

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Virginia Woolf e Lucia Joyce vs James Joyce

di Sabrina Di Monte

 

Virginia Woolf e James Joyce nacquero nello stesso anno (1882) a pochi giorni di distanza, e morirono nello stesso anno (1941), a pochi mesi di distanza.

Per chi, come Jung, crede che i segni zodiacali rappresentino un compendio della realtà psichica e offrano dei modelli psicologici, varrà sapere che erano entrambi del segno dell’Aquario. L’astrologia sostiene che le persone nate sotto questo segno zodiacale sono estrose e originali, difficili da ingabbiare all’interno di schemi e concetti precostituiti, di norma insofferenti alle regole della società, e protesi alla costante ricerca di un modo personale per esprimere se stesse, anche in ferma opposizione agli altri.

E infatti nei primi decenni del 1900, la scrittura di entrambi costituì una rottura degli schemi tradizionali, configurando quella che è stata chiamata la ‘rivoluzione modernista’, la quale innovò profondamente le tecniche narrative, introducendo il ‘monologo interiore’ e il ‘flusso di coscienza’, cioè la rappresentazione delle libere associazioni dei pensieri così come si affacciano alla mente, prima di essere riorganizzati logicamente in frasi.

Eppure, questi due grandi innovatori con così tanti punti in comune non si amavano.

Di certo la Woolf non amò l’Ulisse di Joyce e non lo pubblicò alla Hogarth Press, che aveva fondato col marito Leonard.

Nel 1921 scrisse nel suo diario, dopo che era stata sollecitata a leggere l’Ulisse da T.S. Eliot che se ne diceva entusiasta: «Dovrei essere immersa nella lettura dell’Ulisse […] ne ho lette 200 pagine finora […] mi ha divertita, stimolata, affascinata […] sino alla fine della scena del cimitero, poi sono rimasta confusa, annoiata, irritata e delusa». Alcuni giorni dopo, scrive ancora: «non dubito di averne misconosciuto i pregi più di quanto sia lecito».

Le opinioni della Woolf al riguardo furono sempre ambivalenti. Le lettere, le pagine dei diari, i saggi e le annotazioni sull’Ulisse rivelano una costante copresenza di elogio e disapprovazione per Joyce e una testarda avversione per la sua ‘indecenza’. Allo stesso tempo, però, l’autrice sentiva che questa rappresentava precisamente l’esito del completo realismo psicologico di Joyce. «Gran parte sembra dipendere», scrive Woolf, «dalla fibra emozionale della mente, e potrebbe essere vero che il subconscio dimori nell’indecenza». La scrittrice confida ancora al suo diario: «Ho riflettuto sul fatto che ciò che sto facendo io, probabilmente lo sta facendo molto meglio il Signor Joyce». Eppure, nelle lettere scrive anche che leggere l’Ulisse la faceva sentire «legata come un martire al palo», e infastidita dalla «schiettezza del linguaggio» di Joyce, pur essendo, al contempo, «pronta ad ammettere» con T.S. Eliot che Joyce fosse un genio. Per Eliot, infatti, Joyce aveva ucciso il diciannovesimo secolo, ne aveva messo a nudo tutti gli stili.

In realtà, nelle opere di Virginia Woolf ci sono echi di Joyce. Il flusso ininterrotto di Molly Bloom sembra ricrearsi nel monologo interiore in Mrs Dalloway (1925); in Gita al Faro (1927) e ne Le Onde (1931).

Da Mrs Dalloway: «Si sentiva molto giovane; e al tempo stesso indicibilmente vecchia. Affondava come una lama nelle cose; e al tempo stesso ne rimaneva fuori […] Aveva l’impressione costante, di essere lontana, lontanissima, in mare aperto, e sola. Sempre aveva l’impressione che vivere, anche un solo giorno, fosse molto, molto pericoloso […] ma tutto la assorbiva, tutto».

Come vediamo, Virginia Woolf non va mai oltre il limite che renderebbe il flusso di coscienza ‘oscuro’, un aggettivo che aveva usato per l’Ulisse di Joyce. La Woolf non è mai oscura perché, sebbene il punto di vista del monologo interiore sia sempre quello del personaggio, il suo flusso di coscienza viene intercalato da un narratore in terza persona che si può definire “fluido”, cioè capace di passare da un personaggio all’altro, di entrare e uscire da un flusso di coscienza a un altro.

 

 

La Woolf e Joyce avevano in comune anche l’esperienza della malattia mentale, che Virginia visse personalmente e Joyce attraverso la figlia Lucia, la cui difficile condizione psichica si andò negli anni sempre più aggravando.

Nel 1934, a ventisette anni, Lucia fu trattata anche da Jung, ma era una paziente che non cooperava e fu Jung stesso ad ammettere, dopo quattro mesi di trattamento, che non aveva senso continuare. Jung dirà di Lucia, tempo dopo, ad un interlocutore: «Se lei sa qualcosa della mia teoria dell’Anima, Joyce e sua figlia sono stati un classico esempio di essa. Lei era totalmente la sua ispiratrice, il che spiega la sua ostinata riluttanza a vederla dichiarata pazza. La sua propria Anima, psiche inconscia, era così solidamente identificata con lei, che il dichiararla pazza sarebbe stata come un’ammissione di avere in sé, lui pure una latente psicosi» (C.L.Shloss, Lucia Joyce. To Dance in the Wake, Bloomsbury Publishing PLC, 2003).

Come leggiamo nel bel libro di Francesca d’Aloja, Corpi speciali (La Nave di Teseo, 2020), quando Joyce andò a prendere la figlia in Svizzera, congedandosi da Jung disse: «Lucia ed io nuotiamo nella stessa acqua». «Sì, ma lei sta affogando», fu la replica dell’analista.

Con la madre Lucia aveva sempre avuto un rapporto conflittuale.

Nora era forse gelosa della complicità che legava la figlia al padre e si era sempre detta contraria allo studio del ballo, il grande amore e la grande ambizione interrotta di Lucia, così brava da far sbilanciare un critico nell’azzardata previsione: «Un giorno si parlerà di James Joyce come del padre di Lucia». Purtroppo però i segni dello squilibrio si fecero sempre più gravi e nel 1935 la giovane venne internata in un sanatorio alle porte di Parigi. Il padre era l’unico che andava a trovarla, e quando egli morì improvvisamente all’inizio del ’41 per la complicazione di un’ulcera duodenale, Lucia venne lasciata in balia della madre e del fratello che non faranno nulla per farla dimettere, quasi a insistere che la sua lontananza fosse l’unica soluzione per rimanere integri. Dopo la morte del padre, venne trasferita nel manicomio di Northampton, in Inghilterra, e lì dimenticata. La madre non andò mai a trovarla e tantomeno il fratello.

 

Lucia apprese della morte del padre da un giornale e parecchio tempo dopo dirà a un visitatore: «Cosa sta facendo sotto terra quell’imbecille? Quando si deciderà di andarsene? Ci sta guardando tutto il tempo» (C.L. Shloss). Si sentiva perseguitata dalla figura paterna (Jung dirà anche che era in qualche modo rimasta intrappolata nella psiche di James senza essere in grado di emergere in maniera indipendente). Lo stesso Joyce commentò riferendosi allo stesso tempo alla stesura del Finnegan’s Wake e a Lucia: «Qualche volta mi dico che quando lascerò questa lunga notte, lei pure guarirà» (C.L.Shloss).

Nel Finnegan’s Wake, Joyce porta all’estremo la rottura con la tradizione letteraria precedente, ne scardina totalmente la struttura e il linguaggio, e questo viene posto da lui stesso in correlazione con la malattia mentale di Lucia, probabilmente la schizofrenia. Stabilire se davvero la sofferenza della figlia abbia influito sull’opera del padre, e soprattutto fino a che punto, è molto difficile, forse impossibile, ma risulta difficile anche sfuggire alla suggestione che vede correlate l’estremizzazione del flusso di coscienza nell’Ulisse, e ancor più nel Finnnegan’s, e la schizofrenia, dove il flusso dei pensieri viene a essere drammaticamente disturbato, non rispetta più la logica e si disconnette dalla realtà e dal controllo della coscienza.

Un esempio di come Joyce creò un linguaggio nuovo nel quale, fra le altre cose, decine di lingue convergono, è l’inizio dell’episodio dell’Ulisse, Armenti del sole, forse il più tecnicamente complesso di tutto il romanzo. Molto difficile da capire senza l’ausilio di note critiche, eppure misteriosamente evocativo, musicale ed anche straordinariamente ironico e divertente:

«Deshil Holles Eamus. Deshil Holles Eamus. Deshil Holles Eamus.

Mandaci, o chiaro, o luminoso, Horncorn, movimenti fetali e frutto del ventre. Mandaci, o chiaro, o luminoso, Horncorn, movimenti fetali e frutto del ventre. Mandaci, o chiaro, o luminoso, Horncorn, movimenti fetali e frutto del ventre.

 

Oopseun maschiettunmaschiett oopseun! Oopseun maschiettunmaschiett oopseun! Oopseun maschiettunmaschiett oopseun!» (trad. di Terrinoni, 2012).

 

Anche la Woolf, come Lucia, soffriva di un disturbo psichico. C’è chi ha parlato di psicosi maniaco-depressiva, chi di vera e propria schizofrenia. Di fatto Virginia era vittima di attacchi psicotici, allucinazioni, deliri, che portavano ad una espressione del linguaggio disorganizzata e incoerente e alla perdita di contatto con la realtà. Il 28 marzo del 1941, provata dall’ennesimo crollo mentale, si tolse la vita, lasciandosi trascinare dalle acque del fiume Ouse nel Sussex, nel quale era entrata camminando, le tasche piene di sassi. Aveva 59 anni.

Nella lettera d’addio al marito Leonard, scrive: «Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quello che mi sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la migliore felicità possibile […] Non posso più combattere […]».

E allora forse diventa più facile capire perché Virginia Woolf non abbia voluto o potuto riconoscere il genio assoluto dell’Ulisse di Joyce che, come scrive Enrico Terrinoni nella sua introduzione all’Ulisse, «attraverso le vorticose sperimentazioni linguistiche» porta alla luce «i grandi temi trattati: la patria, la famiglia, la paternità, la religione, l’esilio, l’arte, il corpo»; un romanzo in cui i monologhi interiori s’insinuano gradualmente «fino a dissolvere ogni limite e distinzione tra narrazione realistico-naturalistica e impressione grafica dei pensieri vaganti».

Una dissoluzione che porta Joyce oltre un limite che Virginia non voleva attraversare, nella vita come nella letteratura, forse proprio perché la subiva nella sua malattia.

 

 

Lucia Joyce

Parigi, 1929