I giorni dei cortigiani

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Cortigiani, vil razza dannata! La celebre aria del Rigoletto verdiano mi tornava ossessivamente alle labbra, fin dalla mattina dello scorso 12 giugno, quando la luttuosa notizia è stata data e largamente commentata, sostanzialmente a reti unificate, dai telegiornali di tutte le reti televisive del nostro Paese. Ad officiare le trasmissioni informative erano giornaliste tutte rigorosamente vestite di nero, quelle delle aziende private come quelle del servizio pubblico, talché sembrava di assistere ai notiziari di Tele Teheran. Unica differenza: il velo islamico, che non è stato imposto alle prefiche televisive nostrane. Subito dopo, ci ha pensato il Governo a imporre il lutto nazionale. Chissà poi se qualche appuntato della Guardia di Finanza avrà avuto un sussulto di amarezza nell’alzare le bandiere a mezz’asta, quel giorno, come pure nei due successivi?

Col passare delle ore e dei giorni, la corsa alle commemorazioni giornalistiche si ampliava a dismisura, tanto negli studi radiofonici e televisivi quanto sulla carta stampata (Il Corriere della Sera dedicò 33 pagine – su 71 – dell’edizione del 13 giugno al luttuoso evento del giorno prima, Libero soltanto 29, ma su un totale di 48). Appare evidente che si intendeva, con un così intenso martellamento mediatico, porre le basi per una rivisitazione della figura storica dello scomparso, dipingendo un chiaroscuro che illuminasse vividamente le due doti di statista, di imprenditore che si sarebbe “fatto da sé”, di dirigente politico e sportivo, di affettuoso padre di famiglia – chissà perché indicata sempre al singolare – e tenendo invece nell’ombra più impenetrabile l’affiliato alla più inquisita e discussa loggia massonica, il condannato per frode fiscale, il disinvolto anfitrione delle cosiddette cene eleganti. Nemmeno Caravaggio avrebbe saputo creare un effetto di maggior contrasto tra luce ed ombra organizzando su una sua tela lo spazio di un ritratto.

Scenograficamente, com’è ovvio, l’apogeo dell’apoteosi ha coinciso con le sfarzose esequie officiate in Duomo da monsignor arcivescovo e, naturalmente, offerte alla fruizione del pubblico da una telecronaca – sempre a reti unificate – che per un pomeriggio ha trasformato in una monarchia in gramaglie la Repubblica italiana, con l’aggiuntiva singolarità della presenza in chiesa del Presidente della stessa. Certo, le delegazioni estere non erano molte: l’emiro del Qatar, il presidente iracheno, il premier ungherese e i due capitani reggenti della Repubblica di San Marino. Mancava tra gli altri l’”amico Putin”, a causa del mandato di cattura internazionale spiccato contro il presidente della Federazione russa. Ma per il resto non è mancato niente: accanto alle famiglie, tutte le più alte cariche dello Stato, quasi tutti i leader di partito, generali a quattro stelle, esponenti del mondo imprenditoriale, carabinieri in alta uniforme a scorta del feretro, ovviamente volti noti delle televisioni. Oltre duemila persone: tutta l’Italia che conta. Quella che non conta niente era assiepata nella piazza, o, presumibilmente, davanti ai televisori delle proprie case. Poi c’erano anche, in quelle stesse ore, quelli che contano ancora meno di niente, i cinque o seicento sepolti, senza alcuna cerimonia, sotto il mare al largo del Peloponneso, Il giorno successivo alla loro illacrimata sepoltura il Corriere ha dedicato loro due pagine, contro le 15 riservate alle altre esequie, Libero mezza, contro 14.

Ciò cui abbiamo assistito nei giorni del lutto nazionale è prevedibilmente soltanto la prova generale di uno strisciante processo di beatificazione laica che consentirà di riscrivere la storia, trovando riscontro e supporto nei cortigiani annidati negli studi televisivi, nella carta stampata, nelle università, persino nelle commissioni comunali che operano le scelte di toponomastica.

Ai non molti italiani, che pure esistono, con la schiena diritta, rimane la serena coscienza di essersi conservati per trent’anni “vergin di servo encomio”, per dirla col Manzoni. Il che non è davvero poco.