AUSTRALIA 8

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Palm Valley – Hermannsburg – Wallace Rockhole

di Pericle Camuffo

 

solo sul letto del fiume, schiaccio pietre che hanno visto la nascita della Terra

 

c’è la precisa volontà che in un paese così attento alle conquiste sociali venga mantenuta in vita una situazione diffusa di razzismo che punta all’eliminazione degli originari abitanti del continente

 

Palm Valley, 4 WD only, di pietre larghe, levigate dal Palm Creek, solo ricordo di un fiume che ha ferito la terra. Roccia rossa, di sangue. Guido in una vena aperta da urla giganti nel tempo del sogno, in seconda ridotta. La macchina fatica ed io non so fin dove può arrivare prima di capovolgersi. Ma invece regge, si impenna, passa oltre, a volte devo fermarmi e scendere, cercare la via migliore, a piedi, il passaggio sicuro, vedere cosa nasconde la curva, il dosso, uno sguardo per non morire. Completamene solo sul letto del fiume, schiaccio pietre che hanno visto la nascita della Terra, sento l’acqua scorrere, sento il suo odore, il suono, la forza, tutto questo è rimasto tra le crepe del mondo come un vociare costante che mi accompagna, che mi distrae, che mi tiene in vita. Quattro chilometri in mezz’ora di sudore e paura, senza indicazioni, solo una lunga discesa verso la valle che, nelle leggende Arrernte, è stata luogo di catastrofe, esseri ancestrali bruciati, sottratti al fuoco e diventati palme a rigare il cielo azzurro. Vecchi tronchi diritti verso il nulla, da migliaia di anni, milioni di anni.

Palm Valley è una festa di colori e canguri rimbalzano sulle rocce, lontano. Due ore di camminata, di afa e piedi che bruciano, strisce sulla sabbia, la mia sola memoria, dissolta dal vento e dal vibrare d’insetti. Vicino alla scaletta di legno che mi riporta dove ho lasciato la macchina, il cartello “wetpaint” è l’unica traccia d’uomo qui sotto, memoria del suo passaggio inutile. A Palm Valley, l’uomo può solo indicare a se stesso la via più rapida per scomparire.

Nel 1876, i pastori luterani Kempe e Schwarz, appartenenti alla Chiesa Luterana del South Australia, partirono da Adelaide con 33 cavalli e 3100 pecore per stabilirsi dove oggi sorge la missione di Hermannsburg, a circa 135 chilometri ad ovest di Alice Springs. Diciotto mesi dopo la loro partenza, fondarono la piccola missione che divenne un luogo in cui gli aborigeni trovavano rifugio nei periodi di siccità e potevano evitare di essere massacrati dai bianchi, nonostante la chiesa Luterana, nell’Australia Centrale, avesse come obiettivo primario la distruzione di ogni loro aboriginalità ritenuta primitiva e sacrilega.

Qui ha lavorato il reverendo Carl Strehlow che, tra le altre cose, ha tradotto il Nuovo Testamento nella lingua Arrernte alla fine degli anni Venti, e qui ha vissuto e dipinto Albert Namatjira che con i suoi acquarelli è stato il primo aborigeno a portare all’attenzione del mondo il paesaggio dell’Australia Centrale e il primo aborigeno ad essere onorato con la cittadinanza australiana nel 1957, premio per il suo essere un perfetto prodotto della politica dell’assimilazione. Il suo stile pittorico, infatti, era quello dei bianchi, quello che aveva appreso dal pittore Rex Battarbee. Si dimentica, però, che Namatjira è esistito solo perché ha smesso di essere aborigeno, anche se nelle enclavi bianche del Northern Territory, rimaneva sempre e comunque un nero, spazzatura. Nel 1958 venne arrestato con l’accusa di aver procurato alcol ad un altro aborigeno che, completamente sbronzo, uccise la moglie. Rinchiuso in un campo di prigionia, ne uscì dopo due mesi completamente distrutto, abbandonato e tradito da chi con i suoi lavori si era fatto un sacco di soldi. Non prese più in mano il pennello. Morì poco dopo, nell’agosto del 1959.

Nel 1982 la terra della missione venne restituita agli aborigeni, tradizionali proprietari. Adesso, è solo un luogo di desolazione e di sporcizia. Ci sono rifiuti ovunque, anche se sembra che agli aborigeni tutto questo schifo non interessi, ci camminano in mezzo e passano oltre. Questo tipo di sporcizia non gli appartiene, non sanno che farsene, non è roba loro, fa parte di un altro mondo, quello dei bianchi. Nella loro storia di raccoglitori-cacciatori seminomadi non si è mai presentato il problema dell’accumulo di rifiuti. Quando nel loro campo ce n’erano troppi, se ne andavano e basta, senza pulire, senza mettere tutto in grossi sacchi neri, perché quello che lasciavano sarebbe stato assimilato dalla terra. Era impossibile, per loro, inquinare, la loro era un’esistenza ecosostenibile. E così adesso gettano per terra tutto ciò che hanno tra le mani, perché dentro di loro non è cambiato nulla, continueranno a vivere nel bush, anche se chiusi dentro a dei recinti, anche se protetti, assimilati, riconciliati.

La zona in cui sono allineate le loro abitazioni è chiusa al pubblico, non vogliono altre invasioni, ne hanno avute abbastanza. Non c’è un cancello o una recinzione, solo un cartello che invita a starne fuori. Puoi usare il supermercato e la stazione di servizio, ma nient’altro. Cammino sulle strade di polvere come un fantasma di cui loro ne avvertono solo il riflesso, una vaga ombreggiatura.

Rispetto il cartello e mi tengo lontano dalle case. Qualcuna è comunque visibile, ma ciò che colpisce non è tanto la casa in sé, ma il giardino, che non ha nulla a che fare con l’idea di giardino che può avere un europeo o un bianco in genere, perché il giardino, in realtà, non c’è più. Al suo posto c’è una specie di discarica a cielo aperto, un cumulo di vecchi divani e carcasse di auto arrugginite, coperte e materassi sfondati, avanzi di cibo e di vita: è questo il loro no al nostro modo di vivere. Tutta l’Australia bianca pensa di avere la coscienza a posto sapendo che il Governo stanzia fondi e sussidi per le comunità aborigene, che fornisce addirittura le case a questi poveri disgraziati, e permette loro di realizzare il sogno di tutti gli australiani: avere una casa con giardino. Ma questo non è il sogno degli aborigeni. Questo è uno degli esempi più netti del divario incolmabile che c’è tra i due mondi, tra quello bianco materialista e competitivo, orientato verso il profitto, il progresso, il controllo dell’uomo e della natura, e quello aborigeno, dove ciò che conta è il legame con tutto ciò che vive, con lo spirito della terra, con gli Antenati, dove il compito principale non è quello di guadagnare e accumulare ricchezze, ma impegnarsi per mantenere la terra intatta, come è stata loro consegnata dagli eroi del Tempo del Sogno.

Però non sono sicuro che questo loro modo di vivere sia in realtà un modo di rifiutare, che abbia a che fare, non dico con una sorta di coscienza di classe, ma con un radicato senso critico che li porta a prendere le distanze da ciò che considerano malsano, pericoloso, inutile. Non so se siano vittime o eroi, se vivono così perché sono stati rifiutati dalla società bianca della quale vorrebbero, se gli fossero date le possibilità, far parte, oppure se la loro marginalità è un atto di resistenza, che mai li porterebbe, anche se invitati, ad accettare l’ingresso nel sistema economico e di valori dell’Australia bianca. Forse dovrei fermarmi e chiedere a qualcuno cosa significa essere aborigeni nel XXI secolo, se lottano per avere la possibilità di essere bianchi e di vivere come i bianchi, se rivogliono le loro terre per sfruttarle e per trarne profitto come fanno le varie multinazionali straniere, se ciò che vogliono, alla fine, è la possibilità di diventare ricchi. Ma nessuno mi degna neanche di uno sguardo, nei loro occhi c’è solo sospetto, indifferenza. Una ragazzina seduta fuori dal supermercato segue con la coda dell’occhio la mia uscita dal loro mondo, nel quale, per la verità, non sono mai entrato.

La comunità di Wallace Rockhole, è del tutto diversa. Tutto è ordinato, pulito e ben curato. Ben, un ragazzone di 24 anni ma che ne dimostra almeno 10 di più, mi spiega che ha ricevuto in eredità dal padre la custodia di questa terra. Leggo nei suoi occhi la fierezza di appartenere a un popolo che è a contatto con una conoscenza ed una spiritualità di uno spessore del tutto diverso da ciò che io possiedo. Ci accordiamo per un breve giro da fare nel pomeriggio, mi farà lui da guida.

Camminando tra le rocce e il bush Ben mi indica piante commestibili e medicinali, racconta un po’ la storia di questa terra e di se stesso ma continua a non rispondere alle mie domande sulla sua cultura e sulla sua gente, chiude il discorso dicendo sempre che questo è tutto ciò che posso sapere, che può dirmi o mostrarmi, che il resto sono “cose sacre” di cui non può mettermi al corrente. Non gli interessa raccontarmi storie e leggende, e forse veramente non può farlo, ma descrivermi la condizione attuale del suo popolo. Quando inizia a parlarmi di questo, smette di scherzare, cambia espressione. La sua faccia diventa antica, solcata dalle cicatrici che due secoli di persecuzioni e maltrattamenti hanno lasciato sulla sua gente. Mi dice che in Australia si sta svolgendo una specie di apartheid sudafricana, che l’appartenenza etnica è ancora un fattore fondamentale per la persecuzione, che le carceri sono piene di aborigeni, mentre per gli stessi reati ai bianchi viene data solo una multa. Mi racconta di torture e di violenze gratuite, di umiliazioni e sputi e calci e manganelli, della sua gente che si toglie la vita impiccandosi alle sbarre delle celle, dei diritti umani che sono solo parole inutili su inutili trattati, e della nuova strategia di eliminazione, della nuova forma di genocidio mascherata da sussidio che invece di integrare e riconciliare, separa e allontana e scaraventa i giovani sulle strade, senza lavoro, senza istruzione e senza speranze. Li svuota di ogni identità e tradizione, recide legami con le famiglie e con la terra, calpesta tradizioni e millenni di storia dando loro un’unica via d’uscita, quella dell’alcol e della droga e dell’oblio. Generazioni intere costrette a ciondolare ai bordi delle città senza niente da fare e da capire, senza sentirsi nemmeno persone, perché l’aborigeno senza la sua terra è solo un lenzuolo sbattuto dal vento, è solo sporcizia, spazzatura da eliminare. E visto che non sono riusciti ad eliminarli con le varie pulizie etniche del passato, i bianchi fanno in modo che gli aborigeni si riducano a spazzatura ubriaca e maleodorante, offrendo così la giustificazione per un intervento duro, perentorio, al limite della legalità.

Dopo aver messo sul tavolo quel “paese segreto” di cui ha parlato anche John Pilger in un bel libro, dopo avermi mostrato che l’Australia, al di là della facciata patinata di paese della libertà e del benessere, è fondata sul razzismo, sul sopruso, sul sangue e sulla prepotenza, Ben tace. Mi guarda fisso e mi getta in faccia i suoi occhi di rabbia, e per un attimo penso che in qualche modo ce l’abbia anche con me. Non so che fare o che dire. Ma poi gli si apre il sorriso, ridiventa il ragazzone simpatico di prima, mi assicura che le cose cambieranno presto, e mi saluta.

Non so se le cose cambieranno, né come si potrebbe cambiarle. L’Australia è stato il paese delle grandi conquiste democratiche in anticipo sul resto del mondo ed ha giocato un ruolo di primo piano nelle grandi battaglie internazionali per i diritti umani. Nel 2011, Melbourne è stata considerata, dall’Economist Intelligence Unit, la città più vivibile del mondo, ed altre 4 città australiane sono entrate tra le prime dieci di questa classifica. Nell’ultimo indice dell’International Human Development, l’Australia è al secondo posto tra i paesi più vivibili al mondo, di poco dietro alla Norvegia ed in maniera significativa davanti agli Stati Uniti, che sono al terzo posto. Eppure, gli aborigeni hanno statistiche da terzo mondo. E allora, di fronte a questo, si capisce che c’è una precisa volontà che le cose nei confronti dei nativi rimangano come sono o addirittura peggiorino, c’è la precisa volontà che in un paese così attento alle conquiste sociali venga mantenuta in vita una situazione diffusa di razzismo che punta all’eliminazione degli originari abitanti del continente.

Forse ha ragione George Pitt-Rivers quando scrive che il problema indigeno, dove è presente, è dovuto al fatto che alcuni indigeni sono sopravvissuti e non sono stati “sterminati dalla benedizione della civiltà”. In Australia, gli aborigeni sono sopravvissuti, e sono diventati un problema. Se fossero scomparsi, come avevano annunciato Darwin e dopo di lui molti altri, forse adesso verrebbero ricordati con orgoglio, sarebbero motivo di vanto per gli australiani, verrebbero indicati, con nostalgia, come i custodi di qualcosa di prezioso che abbiamo, purtroppo, perduto per sempre.