Pleasantville la vita è divenire

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di Stefano Crisafulli

 

La vita, si sa, non è un (tele)film. Ma se ad un tratto fossimo proiettati in una sitcom ambientata negli Stati Uniti degli anni ’50? E se fosse proprio un film a mettere in atto questa fantascientifica ipotesi?

Il film in questione esiste, si chiama Pleasantville ed è stato il regista Gary Ross nel 1998 a scriverlo e a dirigerlo. La storia è presto detta: David e Jennifer, fratello e sorella adolescenti interpretati rispettivamente da un Tobey Maguire non ancora ‘spidermanizzato’ e da Reese Witherspoon, grazie ad un telecomando speciale si trovano proiettati nella sitcom preferita di lui, Pleasantville. Il programma è in bianco e nero e dunque, dopo i colori della parte iniziale, anche il film procede in bianco e nero. I due sono diventati membri a tutti gli effetti della famiglia Parker, che, ovviamente, è perfetta: il padre (William H. Macy) è già sveglio e allegro al mattino (cosa poco credibile nella realtà), mentre la brava mogliettina (Joan Allen) prepara la colazione a lui e ai due figlioli che devono andare al college. Un quadretto da pubblicità del Mulino Bianco, solo che al posto dei famigerati biscotti ci sono grattacieli di frittelle ripiene di mirtilli e cosparse da una colata di sciroppo d’acero e altre prelibatezze, dolci e salate, che potrebbero sfamare un reggimento. Arrivati al college, i due novizi apprendono che il mondo è composto da poche strade, in quanto non c’è niente al di fuori di Pleasantville, che c’è sempre il sole e che tutto va bene, tanto che la squadra di pallacanestro non sbaglia un canestro e vince sempre tutte le partite.

Non vi viene in mente nulla? Si, esatto, qui tira aria di Truman show, che in effetti era uscito un anno prima, quasi in contemporanea con Pleasantville, una città fittizia (il nome, tradotto, significa infatti ‘cittadina amena’) tanto quanto quell’altra, Seaheaven: lì era una sorta di reality show focalizzato su un unico individuo inconsapevole, qui è un intero paese, ricreato da un programma televisivo, che subisce l’intrusione del reale e che via via acquisisce la possibilità del divenire. Fino a quel momento, infatti, nulla poteva cambiare nel mondo cristallizzato e perfetto di Pleasantville, proprio perché la vita non c’era: subentrata la vita, le cose ora mutano e si trasformano; tutto scorre, direbbe Eraclito, creando stupore e disagio nella popolazione. Le pagine dei libri non sono più bianche, i canestri si sbagliano e, addirittura, piove! E qui c’è l’intuizione formale, semplice e geniale allo stesso tempo, del regista: il cambiamento avviene attraverso il colore. Dal bianco e nero, via via che i due protagonisti insegnano agli abitanti l’amore, la sessualità e tutta la tavolozza delle emozioni, i fiori, i vestiti e la pelle delle persone si riempiono di colori. Non tutte le persone, però: c’è chi rimane grigio e tale vuole restare, tanto che si formano dei comitati, si aggirano ronde di violenti verso i ‘colorati’ e inizia quel triste fenomeno che gli Stati Uniti spesso hanno vissuto della discriminazione delle differenze, siano, appunto, il colore della pelle (come per gli afroamericani) o politiche (come per i comunisti all’epoca di Mc Carthy). E non è un caso che Ross richiami il maccartismo, perché suo padre ne aveva subìto le dolorose conseguenze. Nonostante un finale non certo memorabile, il film, dunque, è godibile e lascia gli spettatori con la voglia di riscoprire i colori del mondo.