8 MARZO Simone e Zazà
Gabriella Ziani | il caso | Il Ponte rosso N° 66 | speciale 8 marzo
Le inseparabili è una dolorosa storia – vera – e un affondo puro e perfetto nei vibranti segreti di un’amicizia
di Gabriella Ziani
La chiamavano Zazà. Era una ragazzina intelligente e impertinente, bravissima a scuola, capace di suonare pianoforte e violino, di fare dolci, di cucire, di badare ai numerosi fratelli e sorelle, di obbedire sempre alla madre, di amare Dio con devozione penitenziale così come le era stato inculcato in famiglia. Una famiglia facoltosa e bigotta, nella Parigi del primo Novecento, dove relazioni sociali e tradizioni erano come comandamenti e non ci si sposava per scelta ma solo secondo oculati calcoli di status e patrimoniali. è questa speciale bambina che Simone de Beauvoir incontra a nove anni nell’istituto religioso che entrambe frequentano. La ammira, anzi la adora, ne sente la mancanza, l’attrazione ha qualcosa di assoluto e sensuale, «io non concepivo che un solo tipo di amore, quello che provavo per lei». Ha il terrore della perdita, se Zazà dovesse morire, «cadrei a terra morta». Non è ricambiata da subito con altrettanto fervore. Le due ragazze si ritrovano all’università, Simone a Filosofia (dove incontrerà Jean Paul Sartre, l’uomo per sempre) e Zazà a Lettere. Stremata dalle catene famigliari, dagli amori impediti, da una religione che è solo imperio, terrore, colpa e tormento, e i cui dettati la pervadono in modo così profondo e vischioso da non potersene liberare, Zazà muore davvero, all’improvviso, alle soglie dei ventidue anni, il 25 novembre del 1929, per una encefalite fulminante, al culmine di un tracollo psicologico, consumata dalle obbedienze che la annientano e dunque da una terribile solitudine esistenziale.
Simone, che invece si è dichiarata atea fin dalle elementari e ha fatto esplodere il suo desiderio-diritto alla libertà personale e intellettuale, porterà con sé il senso di colpa per essere sopravvissuta, e in molte sue opere cercherà di rievocare la fulgida e dolorosa figura dell’amica amata, finché nel 1954, in pochi mesi, ne scrive la storia, nascondendo Zazà sotto il nome di Andrée Gallard (quello suo vero era Elisabeth Lacoin) e chiamando se stessa Sylvie Lepage.
All’epoca è già una maître a penser molto famosa. Nel 1949 ha pubblicato Il secondo sesso, fondamentale bibbia del femminismo tradotto subito, con clamore, anche in America. Di lì a poco avrebbe vinto il prestigioso premio Goncourt con I Mandarini, poderoso romanzo sugli intellettuali engagé di Francia, fra i quali senz’altro si annovera, al fianco di Sartre, compagno di vita, ricerca filosofica, libero amore, viaggi, libri, amicizie, battaglie al fianco della sinistra. Proprio al cupo Sartre darà da leggere questo romanzo-memoriale, a cui tiene moltissimo: «Storse la bocca – rievocherà in La forza delle cose, uscito nel 1963 – aveva ragione e lo sapevo: quella storia era del tutto gratuita e non interessava nessuno». Che errore.
Finalmente, a tanti decenni di distanza, e a trentacinque anni dalla morte della scrittrice che fece dell’autobiografismo “politico” un genere di straordinaria e imponente forza, la sua figlia adottiva e curatrice, Sylvie Le Bon de Beauvoir, ha deciso di pubblicarlo portando in luce con questo inedito un gioiello letterario di importanza, ancora oggi, particolarmente rilevante, corredato da molte foto e riproduzioni e trascrizioni delle ultime lettere che si scambiarono le due protagoniste. Le inseparabili (così venivano chiamate a scuola le due amiche, da qui l’esatto titolo) è una dolorosa storia – vera – di come il nodo scorsoio delle regole della famiglia borghese e le tenaglie di una oppressiva religione abbiano potuto consumare una giovane vita piena di slanci e di talento. è un affondo puro e perfetto nei vibranti segreti di un’amicizia. è una denuncia delle storture che hanno deformato, a cascata, la vita delle donne di cui si parla: la mamma di Andrée aveva avuto una madre violenta che l’aveva costretta a sposare un uomo detestato, e così farà questa signora, diventata una tiranna col sorriso, che troncherà sul nascere ogni aspirazione sentimentale di Zazà, già resa succube dei doveri familiari e sociali, e tenterà di impedirle di studiare per timore che diventasse un’intellettuale, genere quanto mai pericoloso, obbligando nel frattempo la figlia maggiore a un matrimonio combinato, sulla base di un ennesimo diktat: «O convento, o sposati, il celibato non è una vocazione». A casa dei Gallard-Lecoin infatti «un matrimonio d’amore è sospetto», così come fa paura il voto alle donne che, secondo il ricco padre, portando alle urne masse di operaie avrebbe favorito “i rossi”, nemici della Chiesa. E comunque un’altra regola di casa è che la donna non deve amare, essendo l’amore prerogativa maschile – dunque “lei” è l’oggetto passivo, come è stata mamma Gallard, che tuttavia istruisce crudamente la figlia sulle faccende del sesso, forse per disgustarla ben per tempo e tenerla lontana da quelle che con orrore chiama “le tentazioni”.
Non fa miglior figura l’uomo che Zazà ama, egli pure più devoto a Dio che alla vita, più avvinghiato alla propria mamma che alle prospettive di coppia, e ben disposto a tacciare di superficiale, femmineo “romanticismo” una autentica passione che non sa nemmeno capire. Nella realtà si trattava dell’ancor giovane filosofo Maurice Merleau-Ponty, camuffato come Pascal Blondel in Inseparabili e come Jean Pradelle in Memorie di una ragazza perbene, l’autobiografia degli anni giovanili scritta da Simone de Beauvoir nel 1958, con ancora più dettagli sulla vicenda, una sorta di recupero, visto che il manoscritto del racconto datato 1954 era rimasto in cassetto (mai distrutto, comunque). E lì confermerà: «Zazà era integrata ben più saldamente di me alla borghesia benpensante in cui tutti i matrimoni venivano combinati dalle famiglie […] Zazà amava la vita con ardore; per questo, la prospettiva d’un’esistenza senza gioia le toglieva, a volte, ogni voglia di vivere».
Le due bambine e poi adolescenti si daranno sempre del “lei”. Ma se Simone-Sylvie fa esplodere la propria vita, perseguendo l’indipendenza e la conquista e diventando la paladina del femminismo, Zazà implode per passi successivi, come un animale braccato. Alle elementari, quando le due s’incontrano, ha appena saltato un anno a causa di una ustione alla gamba. A 15 anni, quando la madre inibisce il suo primo amore, passa due ore sul tetto pensando se buttarsi giù o no. Nella casa di campagna dove fra feste e visite i Lecoin trascorrono l’estate, si ferisce al piede con un’ascia per sottrarsi a una gita e relative incombenze, e guadagnare così qualche ora di solitudine in compagnia dell’amica che è stata invitata a condividere la vacanza (nonostante sia troppo “intellettuale” e deviante e troppo poco ricca per essere benvista dalla famiglia). Zazà non è la preferita della madre, e il bisogno di conquistarne l’affetto è come un risucchio irresistibile che costringe la ragazza a un ossequio perenne, tanto che – come nota la Le Bon nella bella postfazione – la giovane interiorizza obblighi e divieti e anche le regole della oppressiva religione, dunque ne resta prigioniera, in una condizione che la rende «debole, sfinita, disperata». Al massimo arriva a chiedersi perché Dio ci voglia infelici, e se Dio la odia in attesa di amarla nell’aldilà, e perché «non ci dice con chiarezza cosa vuole da noi».
Un po’ confonde il quadro, Simone de Beauvoir, cambiando i nomi e le geografie familiari. I Lecoin diventano Gallard in Inseparabili e Mabille in Memorie di una ragazza perbene, e hanno nove figli (sei femmine e tre maschi) e non sei figlie e un figlio come appare nel racconto; Simone non ha due sorelle come nella versione letteraria, ma una sola, Hélène, detta Poupette, che diventerà pittrice. Delizioso seguirne le vicende parallele e intrecciate in Le sorelle Beauvoir di Claudine Monteil, (Castelvecchi 2016). Dove pure, né poteva essere altrimenti, è delineata la figura di Zazà: «Le sorelle Beauvoir, stupefatte, vedevano l’impertinente Zazà incurvarsi, stremata da una vita di divieti». Autobiografica e sempre al centro delle proprie narrazioni, nel racconto fin qui inedito de Beauvoir si fa secondaria e comprimaria, non racconta di sé per lasciare tutto lo spazio alla sua alter ego, fino alle drammatiche pagine finali, dove cercherà invano di volgere al meglio le infelici sorti dell’amica, di cui già aveva intuito il potenziale violento e, date le circostanze, autodistruttivo.
Sul letto di morte Zazà si rivolge alla madre: «Non sia triste. Ogni famiglia ha una tara: la tara qui ero io». Più forte l’espressione che Simone riporta nelle citate Memorie del ‘58: «Non vi addolorate, mamma cara – disse –. In tutte le famiglie c’è qualcuno da buttar via». Il funerale è l’epilogo sia di Inseparabili e sia del volume autobiografico. Là dove Zazà muore le parole finiscono. I testi si sovrappongono nel riferire tristissimi dettagli, la salma viene omaggiata «nella cappella della clinica, sdraiata al centro di un’aiuola di ceri e fiori. Le mani dai lunghi artigli pallidi incrociate sul crocefisso sembravano friabili come quelle di un’antichissima mummia» (Le inseparabili); «Giaceva in mezzo a un’aiuola di ceri e fiori. […] Le mani dalle lunghe dita pallide, incrociate sul crocefisso, apparivano fragili come quelle d’un’antichissima mummia» (Memorie di una ragazza perbene). La tomba fu coperta di fiori bianchi e Simone-Sylvie, regalando invece alla salma tre eloquenti rose rosse, commenta: «Oscuramente capii che Andrée era morta soffocata da quel biancore», e cioè dalle sovrastrutture di paranoica purezza “sociale” cui era sempre stata costretta a conformarsi, ovvero dai «dogmi mortiferi» come li chiama la Le Bon.
Le ultime parole delle Memorie sono anch’esse un epitaffio: «Per molto tempo ho pensato che avevo pagato la mia libertà con la sua morte». Ma Zazà resuscita e si rende eterna con la “grazia della letteratura”, una sorta di laica santificazione, senza alcunché di agiografico, che Simone de Beauvoir non ha rinunciato a donarle, e non solo per amore: là dove si suppone esserci una martire, dev’esserci un carnefice, ed è questo che vediamo di continuo nel dipanarsi della breve vita della sua amica, dove ben ci si fa intravedere dove sia il vero bene e dove il vero male, e quanto male possa fare un malinteso e ipocrita senso del bene, quando è soltanto il fanatismo del “perbene”, specialmente scagliato contro le donne. In questo senso Le inseparabili non è un libro meno politico di tutti gli altri di Simone de Beauvoir, ma Sartre allora non ne colse (o non volle farlo) tutta la portata, tutta la sofferta denuncia di una certa condizione femminile, attorno alla quale non si salvano né padri, né madri, né preti, né fidanzati. E, in fondo, neanche Dio stesso.
Simone de Beauvoir
Le inseparabili
Postfazione di Sylvie Le Bon
de Beauvoir
Traduzione di Isabella Mattazzi
Ponte alle Grazie, Milano, 2020
- 205, euro 15,00