Storia e storie di Aurea Timeus

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Aurea Timeus con una scrittura generosa ed emotiva, ci svela la sua memoria-archivio, senza farne quasi mai una memoria spettrale

di Gennaro Rega

 

«Il libeccio s’avventa coi suoi alti spruzzi sulle rive. Vedo un gran galoppare di nubi addensarsi sulle minacciose vette della Vena e del Caldiera. Le seguo trasognata e mi dico che tra poco dovrà piovere. Odo il rotolare lontano del tuono e scorgo la prima luce che intoppa contro le nuvole. Urla il vento e i vivi e i morti mi sollecitano con voci concitate. Rivedo le loro case settecentesche trasformate in squallide spelonche, percorse da lamenti ormai spenti. Come se mi dovessi fare largo tra una folla pressante, riprendo il filo del racconto interrotto».

È una evocativa sequenza presente nelle prime pagine del romanzo di Aurea Timeus, La tartaruga, pubblicato dall’editore romano Vito Bianco nel 1962. In occasione del centoventesimo anniversario della nascita, mi sembra doveroso tracciarne un ricordo. Infatti il suo nome e soprattutto le sue opere non compaiono di frequente nel canone delle autrici della diaspora istriano-dalmata. Inoltre le ristampe dei suoi libri finora sono state trascurate. Infine la saggistica su di lei è limitata. Segnalo gli Atti del Convegno internazionale tenutosi a Trieste nel 2013, dove Liliana Martissa ne ha fatto un incisivo ritratto come scrittrice. In un recente articolo per Il Piccolo libri, Walter Chiereghin ne auspicava la riscoperta. Tenterò di portare anch’io un modesto contributo in tal senso.

Sono partito proprio dall’opera che diede alla scrittrice polesana una certa notorietà a livello nazionale e suscitò positiva accoglienza di critica e di pubblico. Nell’aprile del 1963 ottenne il premio letterario Naxos, durante una cerimonia «accompagnata da vivi applausi all’autrice e da grandi ovazioni alla Venezia Giulia». Così informava L’Arena di Pola. Nel maggio di quello stesso anno anche Trieste al Circolo della cultura e delle Arti le dedicò una serata durante la quale l’autrice lesse alcuni brani del romanzo e Marcello Fraulini ne fece un’apprezzata prolusione critica. Infine se ne occupò la più diffusa rivista culturale italiana del tempo, La fiera letteraria, con una elogiativa recensione agli inizi del 1964.

La tartaruga si ispira alle vicende della famiglia dell’autrice nel periodo in cui lei, fanciulla e giovane donna, visse con forti e contrastanti emozioni il ritorno dell’Istria all’Italia nel 1918, poi l’avvento del Fascismo e infine i momenti drammatici della fuga di gran parte della popolazione italiana da quelle terre. Il titolo fa riferimento a Cleo, una tartaruga stanziata nel giardino della casa dei Timeus a Portole.

«Attraverso la sua corazza, Cleo non mi udiva e io capivo soltanto ora, che la tartaruga non era mai stata piccina, innocente, dormigliona. Mi rendevo conto, improvvisamente, come il gioco delle proporzioni non fosse che un’opinione, un semplice punto di vista. Anche durante i suoi lunghi letarghi la tartaruga mi era apparsa pericolosa. Nella sua inerzia aveva rimuginato l’avvenire. Aveva architettato vendette che, appena sveglia, attuava ciecamente» (p. 193).

La simbologia dell’animale la si scopre meglio leggendo tutto il libro. Essa allude alla ciclicità della Vita, all’irregolare corso della Storia. L’adolescente protagonista, Costanza, nel vederla apparire «calda come un carbone sotto la cenere» (p. 194), uscita dal letargo e pronta in giardino a riprendere indifferente il suo “misterioso” cammino, intuisce una amara verità: che le tante speranze, le tante attese di quella giovinezza che sta scorrendo felice a Portole, potrebbero presto diventare cenere.

Il romanzo è ampiamente autobiografico. Ruota attorno alle fasi dell’educazione sentimentale di Costanza, alter ego di Aurea, intrecciandosi con gli eventi della contingenza politica e del conflitto fra le etnie italiana e slava. Appena l’esuberante adolescenza sognatrice della protagonista sboccia in un innamoramento per un giovane uomo affascinante, l’ingegnere Ranieri, emergerà un aspro dissidio interiore fra i doveri di figlia, educata in un rigoroso e formale ambiente familiare, e l’aspirazione alla felicità di donna. Il suo personale disagio spirituale, però, è duplice e simile a quello di altri membri appartenenti alla stirpe dei Timeus. Costoro hanno accettato per necessità, ma non con atteggiamento acritico, il regime fascista.

Ineludibilmente esso li sta portando a causa dei suoi metodi e fini prevaricatori, nei confronti della popolazione slava, alla fatale perdita proprio di quel mondo che i loro antenati hanno faticosamente edificato. Sul finire della guerra la separazione definitiva dall’amato Ranieri coincide con la fuga di Costanza e dei superstiti della sua famiglia, esuli dall’Istria e privati di ogni bene. La conclusione del libro, come avviene per altre coeve scrittrici di quelle terre, ad esempio Graziella Fiorentin, è costruito su una sorte di nostos conflittuale. Infatti Costanza, ormai donna matura, decide di rivisitare i luoghi del suo passato.

«Lasciammo la porta medioevale a sinistra e raggiungemmo la villa. Ferma tra i cedri, in un’armonia di spazii e di lontani orizzonti, malandata dall’incuria, la casa ci attendeva, ci attende. […] Ora, le buie pinete, tra le rocce blandite dall’ultima luce, avevano vibrazioni insolite. Una bava leggera, quasi un soffio di speranza, ravvivava il paesaggio. Percepivo l’infinito indugiare del tempo, lo confrontavo coi sussulti della nostra breve stagione. E pensavo alla tartaruga che ordiva storie dolorose e liete, fughe e ritorni. Ferma, sotto l’arco degli anni» (pp. 285-287).

Si tratta di alcune sequenze della parte finale del libro. Gesti, azioni prima ancora di essere compiuti, vengono allusi o prefigurati da una sorta di trasfigurazione (le buie pinete…avevano vibrazioni insolite). Ne La tartaruga si trovano frequenti pause a cui l’autrice ricorre soprattutto in momenti di particolare tensione narrativa. A quel punto la scrittrice inserisce una sorta di movimento esterno, per esempio un canto di un uccello, il fremito di un bosco, il tremito di un corpo, che producono una brevissima fissità dell’empito emotivo, una incantata distrazione dal fitto incalzare del racconto.

La scrittura di Aurea è dunque profondamente radicata nel paesaggio istriano e nelle vicende dei Timeus. Sarebbe importante scoprire le fasi del suo apprendistato culturale e il cantiere artistico – letterario che modellò la sua scrittura. Ma le informazioni biografiche sono scarne e avrebbero bisogno di un’ulteriore ricerca nell’archivio privato della famiglia. Era nata a Pola il 29 marzo 1902. Ma fino al 1946 la sua vita si svolse nel borgo istriano dove era condensata gran parte della storia dei Timeus di antica origine veneziana e di specchiata tradizione irredentista.

In occasione della morte avvenuta a Città del Messico il 17 novembre 1981, Il Piccolo pubblicò un breve “coccodrillo”, quasi un mese dopo la scomparsa. L’Arena di Pola a distanza di due anni ne fece un affettuoso ricordo firmato da Graziella Marchesi, che però poco aggiunge alle informazioni già note. Potrei ancora citare la sintetica biobibliografia sulla Timeus riportata nel bel libro di Silvio Facchini: Portole d’Istria tra immagini e memorie.

Leggendo i suoi lavori pubblicati nel tempo, spesso mi sono chiesto se Aurea Timeus si preoccupò mai di scrivere dei romanzi “attuali” sulla drammatica vicenda dell’Esodo. Ho la convinzione che volle conservarla in una teca di cristallo, soltanto qui e là macchiata dal Tempo, consapevole che mai più si sarebbe potuto riavvolgere il nastro della Storia di quella parte d’Europa.

Quando nell’aprile 1946 esordì con il romanzo La mia gente, la Commissione interalleata stava perlustrando le zone del Friuli – Venezia Giulia e Istria per tracciare i nuovi confini fra Italia e Jugoslavia, poi sanciti dal trattato di Parigi del febbraio 1947. La scrittrice si era ormai forzatamente trasferita in Italia. Ma, pur in tempi così contrastati per la sua terra di origine, non scelse di scrivere un testo pamphlettistico sulla diaspora delle popolazioni istro-dalmate. Preferì proporre un “omaggio” a quattro generazioni di Timeus, lungo l’arco di circa un secolo, dai primi dell’Ottocento alla fine della Prima Guerra Mondiale. Nel complesso e tormentato svolgersi delle situazioni, i rappresentanti di questo ghenos si avvicendano, combattono e amano nella Storia e contro la Storia, mantenendo le tradizioni patriottiche salde come le rocce dell’Istria su cui hanno costruito le loro case. Anche nel saggio della studiosa polesana Elis Olujiḉ, pubblicato nel 2004 e intitolato La forza della fragilità: scrittura femminile nell’area istro-quarnerina, si evidenzia come in questo libro sia da apprezzare l’«equilibrata mescolanza di oggettività storica e invenzione narrativa».

Se scrivere permette di riconoscerci, di metterci in relazione con epoche e individui, anche lontani, capaci di parlare alla nostra interiorità, Aurea Timeus con una scrittura generosa ed emotiva, ci svela la sua memoria-archivio, senza farne quasi mai una memoria spettrale. Infatti sia nei due romanzi “istriani” già citati sia in alcuni successivi racconti aventi questa tematica, si astiene dal rappresentare con troppa crudezza scene di eccidi o di scontri armati. Le cicatrici delle vicende di confine durante e dopo il conflitto sono accettate per produrre memoria e non risentimento o peggio, odio.

Parafrasando Nietzche, Aurea finita la guerra vuole sentire nuovamente soffiare il vento di primavera e percepire la sua anima, la sua mente più leggere. Trova, dopo la catastrofe, un nuovo luogo, una nuova casa dove realizzare tutto ciò. È Roma, dal Dopoguerra agli anni Sessanta. Poi Città del Messico, quasi un secondo esilio, quando a metà degli anni Settanta decide di riunirsi al figlio Fauro Aloi, ingegnere, e alla sua famiglia trasferitisi lì per motivi professionali. Ma queste scelte sono il segno che l’autrice con coraggio seppe attraversare e superare “la perdita” originaria.

Nell’intervallo tra l’uscita dei due libri già citati che avrebbero dovuto formare con I senza terra, una compatta trilogia storico-autobiografica delle vicende vissute in un secolo e mezzo dall’Istria e dai Timeus, la scrittrice aveva composto il romanzo Queste povere mogli uscito nel 1951 per una piccola casa editrice milanese, La Prora.

In quegli anni era duro pubblicare con la desinenza “a”. Solamente quando nel 1961 in Italia “Il Saggiatore” fece conoscere Il secondo sesso di Simone de Beauvoir anche da noi si avviò su larga scala il dibattito sulla questione femminista e le cose cambiarono rapidamente. Aurea Timeus propone una tormentata e infelice figura femminile, Mirta, che è il frutto di una certa educazione borghese nell’Istria a cavallo fra Impero asburgico e Regno d’Italia. In quel contesto storico-sociale le donne in famiglia venivano prese in giusta considerazione perché spesso ne tenevano ben salde perfino le redini economiche. La protagonista infatti attraverso dolori, ribellioni, cedimenti, fughe, ritorni vorrebbe fino all’ultimo realizzare un matrimonio basato sulla libera convivenza e sulla consapevole fedeltà ad un uomo solo. Ma la sua cultura spiccatamente nordeuropea e aperta, cozza contro quella del marito, Domenico Ortanova, un barone meridionale, stretto nei pregiudizi della sua terra e soffocato dalle usanze assorbite acriticamente.

«Tutto è detto con molta semplicità, con quell’accento che palesa la fedeltà al vero, con un naturale sentimento affettuoso e una nitida appropriatezza di stile che richiama i buoni narratori dell’Ottocento». Così recensiva su La Voce libera, lo scrittore triestino Silvio Benco. È un giudizio condivisibile. Infatti il romanzo oscilla fra sequenze di un passatismo, per il lettore di oggi, quasi insopportabile, e pagine di una audacia sentimentale e intellettiva, che si aprono a uno sviluppo narrativo percorso da improvvise vibrazioni, scatti, raffinatezze stilistiche.

Fra gli anni cinquanta e gli anni sessanta Aurea Timeus ebbe occasione di collaborare con alcuni quotidiani nazionali, oltre che per la Rai di Trieste. I sei “pezzi”, dalla forma e dal tratto impressionistici, pubblicati per il quotidiano torinese Stampa Sera fra la primavera del 1955 e l’estate del 1956, sono composizioni che andrebbero accostate alle pagine della silloge narrativa Piaceva all’elefante, pubblicata nel 1971. Del libro si è occupato con attenta cura Walter Chiereghin sull’inserto in precedenza citato del quotidiano Il Piccolo di Trieste. Timeus alternava dunque la scrittura di romanzi a quella di sapidi e vivaci racconti dove fatti del vivere quotidiano, tipi umani, variegate situazioni vengono osservati con occhio attento e vivace.

In questi bozzetti di vita trascorsa a Roma, si leggono sequenze con connotazioni vivaci e stupite per certe bellezze romane: il parco di Villa Sciacca oppure il panorama dal balcone del suo nuovo appartamento a Monte Mario dove «i tramonti non finiscono mai» (La casa nuova, giugno 1955). Si tratteggiano figurine di cameriere astrologhe (Titina, le carte e gli orologi, aprile 1955) o ladre per una futile avidità (Due gocce di rugiada, agosto 1955), di lavandaie fiere di possedere finalmente uno status symbol come la pelliccia anche se “de can de palù” avrebbero aggiunto ironicamente in casa Timeus a Portole (La pelliccia, febbraio 1956), di amiche che tentano di superare certi blocchi psicologici del vivere in società (Debutto, agosto 1956). Il racconto del maggio 1955 intitolato Nostalgia di Marco è l’unico che si volge al passato. «In famiglia ci siamo imposti di accettare il nostro destino di esuli e di non farne più menzione con nessuno, nemmeno con noi stessi». Da questo imperativo deroga il “pezzo” che è una struggente rievocazione del cugino Marco, morto nella difesa di Portole nel 1944, e di alcuni episodi vissuti insieme a lui nella fanciullezza. Può considerarsi una sorta di “cartone preparatorio” di scene e personaggi che si ritroveranno, pur con nomi cambiati, in La tartaruga

Dal 1958 su Momento sera tenne una rubrica di giardinaggio dal titolo “Il balcone fiorito”, allusione a quello da lei amorevolmente curato nella sua casa romana. Sembrano noterelle frutto semplicemente di un esercitato gusto estetico e di bon ton acquisiti in una famiglia di agiata borghesia. Invece anche loro affondano le radici nelle esperienze e nei ricordi di «[…]una terra bianca calcarea; quella terra così indifferente alla fatica dell’uomo», come si legge nelle prime pagine del romanzo La mia gente. Drio la Terra (cioè dietro il castello di Portole) Aurea riconosceva ancora la vivida immagine «dei cedri dalla aria festosa», «dei cespugli di lillà», «dei fiori a grappoli» e nella casa paterna «i freschi mazzi di rose disposti nei vasi un po’ dappertutto». Ebbene queste coloriture si possono cogliere, ad esempio, nella rubrica del 2 marzo 1958. Vi si danno consigli su come comporre al meglio un bouquet primaverile. Eppure Timeus lo fa con la stessa vivacità con cui nelle sue opere rappresenta i colori variegati delle piante e dei fiori, con la stessa meraviglia per la loro armoniosa disposizione, con la stessa cura nei dettagli paziente, attenta e tesa ad offrire “l’incantevole risalto” della Natura.

Anche il volumetto Pranzetti di casa mia, pubblicato nel 1963 a Roma, contiene sette racconti ricchi di connotazioni vivaci, di profumi e sapori e sensazioni emozionali che emergono intatti dalla memoria dell’autrice. Rievocano con l’ironia così tipica di casa Timeus e dei polesani, alcune scenette che scorrono lungo i ritmi quotidiani della sua giovinezza a Portole prima dell’esilio. Risultano dei veri “bocconi” letterari con sfumature divertenti, gioiose e risonanze psicologiche talvolta venate di nostalgia. I piatti di selvaggina della nonna Angela, «la grande anfitriona»; i vassoi di granchi e di pesce «che erano un cantico ai limpidi fondali del mare»; i buzzolai divorati dal contadino Bògnolo; la fantastica frittata «di vento e di mare»; l’ospite azzimato inondato di Refosco… Sfogliandone le pagine sembra quasi di sentire lo sfrigolare delle uova condite con olio profumato, succulenta colazione per affamati cacciatori. Entrare in questo linguaggio, appunto gustoso, è compiere un viaggio nel tempo e nei ricordi più gradevoli della scrittrice istriana. Il lettore si sente avvolto e trascinato da quei déjà vu olfattivi perché si legano in qualche modo ai momenti amabili della vita di ognuno di noi.

In uno dei racconti di Mexico familiare (1968), l’ultimo suo libro scritto in italiano, lei stessa confesserà che i paesi dove ha avuto il destino di abitare la possiedono. Usa questo verbo “forte” per connotare che il suo stile con una umanità, vitale, ampia, incondizionata si nutre di una sincera aderenza alle storie, alle persone, ai luoghi che evoca.

 

 

Aurea Timeus

in un ritratto giovanile