Il cinema visto da Almodòvar e Tarantino

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di Alan Viezzoli

 

Se nell’edizione di quest’anno del Festival del Cinema di Cannes la giuria ha voluto premiare quasi esclusivamente film volti ai problemi sociali, un’altra tematica ha accomunato le pellicole presentate in concorso: quella del Cinema che guarda a sé stesso. Pur se Sibyl di Justine Triet e, in misura molto minore, I morti non muoiono di Jim Jarmusch possono entrambi rientrare a pieno titolo in questa categoria, i due film più rappresentativi di questo percorso sono senza dubbio Dolor y gloria di Pedro Almodóvar e C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino.

Dolor y gloria è forse il film più autobiografico di Almodóvar. La storia è quella di Salvador Mallo (Antonio Banderas), un regista che in occasione del restauro di un suo film di successo di trentadue anni prima decide di fare il punto della sua vita, ricordando l’infanzia passata con sua madre e cercando di risolvere i dolori fisici e psicologici che lo attanagliano e gli impediscono di lavorare. Almodóvar mette tutto sé stesso nel personaggio di Salvador: l’aspetto fisico di Banderas all’interno film è identico a quello di Almodóvar quindi il parallelismo è più che manifesto. Più che essere un film-testamento, come si è letto in giro, con Dolor y gloria Almodóvar vuole mettere un punto fermo nella sua vita per ricominciare. Ad un certo punto del film uno dei personaggi fruga nel computer di Salvador e trova dei testi autobiografici inediti. Alla domanda: «Perché li hai scritti?», Salvador risponde: «Per dimenticare». Esattamente lo stesso principio può essere applicato al film: in Dolor y gloria Almodóvar tratta temi profondi e personali come i problemi di droga, i dolori fisici e le insicurezze in modo da fissarli sulla pellicola e dimenticarli, per andare avanti e costruire qualcosa di nuovo.

Così come Almodóvar mette in scena un regista per parlare di sé e del suo Cinema, Quentin Tarantino in C’era una volta a… Hollywood porta su grande schermo una Hollywood che lui (e tutti noi con lui) abbiamo amato ma che non esiste più. Ambientato a Los Angeles nel 1969, il film segue le vite di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), un attore in declino, e Cliff Booth (Brad Pitt), sua controfigura. La vita dei due cambierà quando nella villa accanto a quella di Dalton si trasferirà Sharon Tate (Margot Robbie). Quentin Tarantino confeziona un film molto distante da quello che il pubblico si può aspettare da un suo film. Il tipico citazionismo (e, spesso, auto-citazionismo) viene usato per raccontare un mondo cinematografico, quello degli Anni ‘50 e ‘60, che non esiste più. Un momento storico come il 1969 che ha visto la perdita dell’innocenza del Cinema statunitense con l’assassinio di Sharon Tate da parte dei seguaci di Charles Manson e con l’arrivo della cosiddetta “Nuova Hollywood”. Magnifici i due protagonisti, specialmente DiCaprio il quale, interpretando il ruolo di un attore, può dare una sublime prova recitando in un film all’interno del film, fornendo così una gamma di interpretazioni e di sensazioni estremamente variegata e confermando di essere uno dei migliori attori in circolazione.

Due film diretti da grandi registi che usano il Cinema per parlare del Cinema stesso anche se, forti della loro maestria dietro la macchina da presa, non si limitano a un discorso autoriferito. In entrambe le pellicole, infatti, si esce dalla citazione fine a sé stessa per costruire qualcosa di più – e tale operazione riesce solo a quei cineasti che sanno padroneggiare il mezzo che stanno usando.