CINEMA – Loveless di Andrey Zvyagintsev

Loveless locandinaLoveless (Andrey Zvyagintsev, Russia, 2017).

di Pierpaolo De Pazzi

Valutazione 3/5

È il 2012 e infuria la guerra in Ucraina. Due giovani russi stanno divorziando: sono impegnati a insultarsi, vendere casa e tentare di liberarsi del figlio, mai veramente amato e diventato solo un ostacolo sulla strada dei loro divergenti progetti di vita. Mentre i due sono impegnati coi nuovi amanti, il ragazzino, quasi esaudendo il loro desiderio, scompare.

Alzandomi intirizzito dopo la proiezione, al freddo invernale di una sala come al solito semivuota, agghiaccio, interrogandomi sul valore di quel che ho visto.

Il film è costruito benissimo, ed esprime con grande rigore una critica generale al mondo d’oggi, disumano e senza amore, a partire dalla Russia. La famiglia, le nuove tecnologie, il consumismo, l’organizzazione del lavoro, il capitalismo, gli sviluppi urbanistici delle città, le articolazioni sociali, la scuola, lo Stato, la Chiesa che diffonde conformismo e pregiudizi, senza essere più contrastata da altre ideologie forti: non c’è nulla che sfugga all’analisi impietosa del regista.

È girato in un sobborgo di Mosca, Yuzhnoye, dove la periferia si confonde con la natura e alcune architetture abbandonate sono testimoni, fossili e indifferenti, di un passato che non c’è più e di un futuro che poteva essere e non è stato, muti per un presente che non sa ascoltare.

Tutti i personaggi sono congelati in una solitudine senza rimedio. I nuovi, superficiali amori si iniziano più per coazione a ripetere sempre gli stessi errori che per convinzione: si vorrebbe che fossero strumento per sfuggire a un presente insopportabile, ma finiscono subito per trasformarsi in nuove gabbie, ancora più insopportabili.

Gli smartphone vengono usati come un muro, per isolarci nelle nostre solitudini, vagheggiando un altrove impossibile e impedendo il contatto con il qui e ora.

Amore è un sentimento che si percepisce solo in assenza, nostalgia favolosa di un’infanzia negata, aspirazione a un domani migliore, che non ci sarà, rimpianto per quel che sarebbe potuto essere.

Gli appartamenti, pronti per essere ristrutturati, sono immediatamente svuotati di ogni traccia delle vite che vi si sono svolte, consumate, esaurite, finite. Mentre le foto ritratto del bambino smarrito sbiadiscono, una fettuccia incastrata per gioco su un albero è tutto quello che resta della sua vita, durata solo 12 anni, senza che nessuno, per primi i genitori, ne avesse cura.

Il film è racchiuso simmetricamente da due lunghe carrellate nella natura, cariche di riferimenti a un’iconografia nordica, riferibile a Bruegel attraverso la lezione di Tarkovskij, e tutto il film è pieno di scene costruite con una punta di esagerato perfezionismo.

Ne faccio due esempi: subito dopo il più terribile dei litigi della coppia in separazione, una porta chiudendosi ci fa vedere il figlio piangente, quasi già un fantasma, disperato per aver sentito tutto – c’è forse un eccesso di manierismo?

Dopo la separazione, dopo il lutto, la madre corre su un tapis roulant, come un topolino in una gabbia. Sulla sua felpa, ben in grande, sta scritto RUSSIA, se qualcuno non avesse afferrato la tesi del film – «We’re on a road to nowhere / Come on inside».

Alla fine qualcosa non torna, complice il freddo della pellicola e del cinema non riesco a provare emozioni, nessuna pietas e a tratti compare la noia. Tutto troppo perfetto, troppo programmatico.

Esco e mi meraviglio che non nevichi: «the snow falling faintly through the universe and faintly falling, like the descent of their last end, upon all the living and the dead».