La fortuna di Jheronimus Bosch

| | |

Un’importante mostra a Palazzo Ducale

di Nadia Danelon

Per comprendere a fondo l’importanza storica e culturale dei tre capolavori di Jheronimus Bosch conservati a Venezia, vale la pena di partire da una testimonianza diretta, rintracciabile in una descrizione compilata tra il 1521 e il 1543: si tratta del volume Notizia d’opere di disegno di Marcantonio Michiel, uno dei primi testi di critica d’arte, conservato presso la Biblioteca Marciana. Nell’ambito della sua testimonianza, il conoscitore e critico d’arte descrive approfonditamente i dipinti conservati nella collezione del cardinale Domenico Grimani, patrizio veneziano noto per il gusto raffinato e per l’interesse dimostrato nei confronti della pittura nordeuropea.

Uno degli elementi più interessanti tra quelli già presenti nelle sue collezioni è il favoloso Breviario Grimani, capolavoro dell’arte miniaturistica fiamminga composto da 110 miniature per 832 fogli. Il volume viene acquistato dal cardinale nel 1520 grazie all’intermediazione di Antonio Siciliano, ambasciatore del duca di Milano nelle Fiandre: quindi, il Breviario entra a far parte della raccolta Grimani tre anni prima della morte dell’illustre collezionista. Appena quattro anni prima (1516), grazie ai contatti sviluppati con alcuni esponenti della comunità ebraica veneziana, il cardinale Grimani entra orgogliosamente in possesso di alcune tavole provenienti dalla località neerlandese di ‘s-Hertogenbosch: sono le ultime opere rimaste nella bottega di un pittore geniale, scomparso non molto tempo prima. Nel 1523, anche Domenico Grimani muore: generosamente, lascia in eredità alla Serenissima Repubblica Veneta molte opere da lui raccolte e preservate con cura, tanto forte è il suo attaccamento nei confronti della patria (vale la pena di ricordare che il cardinale è figlio di Antonio Grimani, settantaseiesimo doge di Venezia). Tuttavia, quasi dimenticata, la donazione Grimani giace per quasi cent’anni nei sotterranei di Palazzo Ducale: recuperata quindi dopo molti decenni, nel 1615, quando le casse vengono per la prima volta riaperte e un nucleo della collezione viene esposto nella residenza dogale. Possiamo immaginare l’ammirazione suscitata dalla riscoperta, dopo tanto tempo, delle meraviglie presenti nelle collezioni Grimani. Un patrimonio preziosissimo che comprende anche tre capolavori ricchi di mostriciattoli, incendi e visioni oniriche: quelli descritti e visti da Marcantonio Michiel nel 1521. Con questa premessa, necessaria perché utile a comprendere l’importanza di alcune piccole stravaganze nel contesto collezionistico veneziano, può essere affrontata una breve analisi della mostra “Jheronimus Bosch e Venezia”: allestita nelle sale dell’appartamento dogale di Palazzo Ducale, aperta al pubblico dal 18 febbraio al 4 giugno 2017. L’esposizione, legata alle due mostre monografiche già allestite nella città natale di Bosch e al Museo del Prado di Madrid, presenta al pubblico i ricordati tre capolavori del pittore olandese conservati in ambito lagunare: si tratta, rispettivamente, di due trittici (Il Martirio di Santa Liberata e i Tre santi Eremiti, entrambi realizzati tra il 1495 e il 1505) e delle quattro tavole che insieme rappresentano Paradiso e Inferno (1505-1515). L’occasione del cinquecentesimo anniversario della morte del pittore (2016) offre la possibilità di ammirare le tre opere attualmente conservate presso il Museo Nazionale delle Gallerie dell’Accademia, recentemente restaurate: l’intervento sulle preziose tavole ha fatto riemergere dei particolari precedentemente celati agli osservatori, oggetto di studio e dibattito da parte dei critici che nel corso degli anni hanno analizzato i capolavori del pittore olandese. I restauratori hanno avuto il privilegio di ammirare per la prima volta i volti dei committenti del Martirio di Santa Liberata, un tempo raffigurati ai lati della scena principale e poi nascosti dallo stesso pittore per un cambio di destinazione dell’opera. Inaspettatamente è riemersa anche la barba di Liberata, che ne conferma l’identità grazie al chiaro riferimento relativo alla leggenda agiografica legata al culto della santa: riconducibile ad una reazione logica e istintiva, messa in atto nei Paesi Bassi del sud all’arrivo di un doppione del Cristo di Lucca, utile a spiegare in modo alternativo l’insolita iconografia del Crocifisso vestito di una lunga tunica. Sono riemerse anche le modifiche apportate in corso d’opera tanto alle tre figure dei Santi eremiti quanto al paesaggio dello stesso trittico. Il percorso si snoda in diverse stanze, presentando volta per volta i protagonisti dell’esposizione: il primo, naturalmente, è Bosch. Lo segue a ruota Domenico Grimani che con il nipote Marino è raffigurato nel ritratto realizzato da Jacopo Palma il Giovane appena nel 1578 ed esposto in mostra, in una sala dedicata alla statuaria antica tanto ammirata dal patrizio veneziano. Emerge, nel suo importante ruolo di intermediario anche Daniel van Bomberghen, il mercante e imprenditore fiammingo che per primo riesce a individuare i dipinti rimasti nella bottega di Bosch dopo la sua morte e a farli giungere a Venezia, dove la sua presenza è documentata dal 1515. La contestualizzazione delle opere del pittore di ‘s-Hertogenbosch viene favorita dalla presenza in mostra di alcuni piccoli bronzi ispirati a soggetti mostruosi (il Calamaio in forma di mostro marino di Severo da Calzetta e il Satiro seduto che beve di Andrea Briosco, esposti nella stessa sala delle Quattro visioni dell’aldilà), testimoni di un gusto collezionistico legato al soggetto fantasioso e surreale, già radicato in laguna ancora prima dell’arrivo delle opere di Bosch: anzi, l’approdo dei dipinti in collezione Grimani sarebbe la diretta conseguenza di questo particolare interesse, tanto da far pensare che l’acquisizione delle stesse da parte del cardinale sia legata anche allo scopo di utilizzarle come argomento principale per dotte conversazioni. L’esposizione si chiude con alcune opere del pittore Joseph Heintz il Giovane, che nel corso del Seicento (risulta attivo a Venezia per oltre cinquant’anni) fa rivivere in chiave di puro estetismo e ricerca dell’effetto visivo, creature simili a quelle che si possono osservare nei capolavori di Bosch. La mostra veneziana è stata una degna conclusione per la serie di esposizioni organizzate con lo scopo di celebrare l’enigmatica produzione pittorica di Jheronimus Bosch. L’esposizione di Palazzo Ducale si è presentata come ricca di particolari, studiati con lo scopo di rendere partecipe il visitatore facendolo entrare in contatto con la realtà legata all’ambiente intellettuale veneziano del Cinquecento e del Seicento, ma anche con il grande lavoro effettuato per la realizzazione della mostra stessa. Tra i punti a favore che meritano di essere assegnati va contato (senza ombra di dubbio) il video riassuntivo e di benvenuto presente nel primo ambiente dell’esposizione: il curatore della mostra, Bernard Aikema, ha accolto ciascun visitatore in una ripresa video a grandezza naturale. L’esposizione realizzata grazie alla collaborazione dei Musei Civici con le Gallerie dell’Accademia di Venezia, corredata anche da una sala appositamente allestita per la realtà virtuale (permettendo quindi ai visitatori di entrare letteralmente in contatto con l’universo fantastico dipinto da Bosch) è accompagnata da un catalogo edito da Marsilio.

 

Dida immagini:

 

Jheronimus Bosch

Polittico delle Visioni dell’Aldilà

Credit © Archivio fotografico

Gallerie dell’Accademia

su concessione del Ministero

dei beni e delle attività culturali

e del turismo.

Museo Nazionale

Gallerie dell’Accademia di Venezia”