LUNATICO – In scena l’assistenza ai richiedenti asilo

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e poi un’intervista a Gianfranco Schiavone,

presidente dell’ICS – Consorzio Italiano di Solidarietà

di Walter Chiereghin

 

 

Il teatro esplica appieno la sua funzione di impegno civile quando la vicenda narrata, il soggetto, le modalità della resa drammatica e le informazioni che riesce a diffondere impongono allo spettatore una riflessione su temi che riguardano il suo stesso presente, quello della società attorno a lui e gli sottopongono punti di vista non scontati che, anche sotto un velo di apparente leggerezza e persino di comicità, costituiscano uno strumento di crescita culturale e civile. Un teatro, insomma, che mette a nudo i drammi di condizioni umane, individuali o collettive, e che solleciti quindi a operare una decisa scelta di campo.

Aderendo a questa visione del teatro e della sua utilità sociale, Maurizio Zacchigna ha scritto una commedia, anzi – consueta esterofilia – una “Social Comedy”: Intrigo a via Doganelli, la cui anteprima è andata in scena nell’ambito del Lunatico Festival la sera del 30agosto scorso, per la regia di Marko Sosič. (La prima assoluta dello spettacolo si terrà il 27 ottobre al Teatro Miela di Trieste) Un testo che, sotto l’apparente leggerezza di situazioni, caratteri e dialoghi assai di frequente frizzanti e leggeri, offre invece spunti di riflessione attorno allo stillicidio di eventi che drammaticamente impegna tutto intero il nostro continente, alle prese con il problematico impatto con il numero di migranti che hanno per meta i Paesi della UE, al loro interno lacerati tra solidarietà e accoglienza da un lato e timore e respingimenti dall’altro.

Il punto di vista attraverso il quale si sviluppa la trama della commedia è interno a un gruppo di lavoratori di una struttura non governativa che s’è assunta l’incarico di assistere i richiedenti asilo collaborando, in un clima di assai perfettibile organizzazione, con le autorità locali chiamate a gestire il flusso degli stranieri che hanno fatto richiesta d’asilo politico.

Su una scenografia ridotta all’essenziale: cinque sedie per gli attori e altre due, marginali, riservate all’autore, anche lui in scena a semplificare o complicare l’azione scenica, vestendo i panni di se stesso, di autore cioè, ma all’occorrenza anche quelli di regista o di un personaggio femminile, l’anziana signora Devotich, perbenista e potenziale aderente al Ku Klux Klan.

Il gruppo è formato da Elena, la responsabile, perennemente sul bordo di una crisi di nervi, “sensibile ma estremamente autorevole” come la definisce l’autore, Renzo, “operatore molto appassionato ma estremamente ideologico”, Davide, “operatore molto efficiente ma estremamente sarcastico”, Luigi, “operatore versatile ma estremamente sottostimato”, Carolina, “operatrice molto precisa ma estremamente esigente con se stessa”.

Facendo interagire questi personaggi, la commedia riesce a tenersi in equilibrio tra la serietà del suo impegno sociale (che troverà in un bel monologo finale di Luigi la sua amara esplicitazione) e la sorridente leggerezza delle situazioni, offrendo uno spettacolo godibile, ma che ha anche il merito di indurre a una riflessione nient’affatto superficiale.

Alla fine dell’azione proposta sulla scena, con un salto di genere cui ci ha abituato la televisione – ma non ancora il teatro – abbiamo assistito nella serata del Lunatico festival a un’autentica intervista collettiva di tutti gli attori a Gianfranco Schiavone, presidente dell’Ics, che per l’interesse delle domande e per la chiarezza delle risposte intendiamo riprodurre di seguito almeno nei suoi momenti essenziali.

D.: profughi, richiedenti asilo, rifugiati, migranti economici, clandestini… non ci si capisce più niente. Può farci un po’ di chiarezza?

R.: cominciamo da quella che è una parola sicuramente sbagliata: clandestino. Sbagliata perché è una parola coniata nell’ambito politico con scopo dispregiativo e che sul piano giuridico non ha invece nessun significato; pertanto non dev’essere applicata a nessuna persona, neanche a quelle che, in ragione della mancanza di un titolo di soggiorno, sono irregolarmente presenti; sicuramente non può essere applicata ai rifugiati, perché nessun rifugiato è clandestino, perché nessuna persona che fugge e chiede protezione è irregolare. Rispetto a tutte le altre definizioni ricordiamoci sempre che sono tentativi, a volte anche un po’impropri, di classificare situazioni umane e giuridiche difficili da incasellare. In particolare il confine tra migranti economici e migranti forzati, che pure dobbiamo mantenere per motivi di equità, è molto sottile e insidioso. Potremmo definire migranti forzati tutti coloro per i quali prevale, una spinta a partire per motivi indipendenti dalla loro volontà a seguito di persecuzioni, conflitti e situazioni di violenza generalizzata nel paese di origine, mentre parliamo di migranti volontari quando ci riferiamo a coloro che si muovono per il desiderio di cambiare in meglio la propria vita. All’interno di ogni progetto migratorio ci sono sempre aspetti forzati ed aspetti di volontarietà e ricadiamo nell’una o nell’altra condizione a seconda di quale componente ha la prevalenza. Richiedente asilo e rifugiato sono due parole che indicano la stessa cosa, ovvero la condizione della persona che chiede il riconoscimento giuridico della protezione, a seconda che si trovi nella fase della domanda ancora da esaminare o abbia ottenuto il riconoscimento richiesto.

D.: E se la risposta invece non è positiva?

R.: Allora si tratta di un migrante irregolare, a meno che non abbia un altro motivo che ne giustifichi la presenza sul territorio comunitario.

D.: “Clandestino” è quindi una parola che non dovrebbe mai essere adoperata?

R.: Esattamente, come avevo detto. Anche se purtroppo la sentiamo spesso, è un termine utilizzato per fini di propaganda politica, per fornire un’idea distorta del complesso fenomeno delle migrazioni. In particolare in ambito giornalistico esiste un protocollo deontologico, detto Carta di Roma, che già dal 2008 rilevava la necessità di utilizzare termini giuridicamente corretti per evitare inutili allarmismi nell’opinione pubblica. Molto spesso, purtroppo, la norma non è applicata, ma le redazioni sarebbero tenute a osservarla con scrupolo.

D.: stiamo assistendo a un’invasione di rifugiati nel nostro Paese?

R.: Assolutamente no. Il numero di rifugiati in Italia è inferiore alla media dell’Unione Europea; (circa 1,8 richiedenti asilo per mille abitanti in Italia a fronte di una media di 2.6 richiedenti asilo ogni mille abitanti quale media UE – dati Eurostat 2016) quello che ci colpisce è la velocità di intensificazione del fenomeno che noi quindi percepiamo come molto più grave di quanto in effetti sia. Ciò è dovuto al fatto che l’Italia è un Paese che in passato aveva pochi rifugiati e non ha una solida tradizione d’asilo.

Per quanto riguarda Trieste, il numero di rifugiati è superiore alla media nazionale, ma non rappresenta alcuna anomalia rispetto al contesto europeo. Va considerato che la posizione geografica espone Trieste a flussi di ingresso e di transito che sono ovviamente aumentati con la cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015

D.: Si sente spesso parlare del regolamento di Dublino, che assegnerebbe all’Italia un numero insostenibile di rifugiati. Vuole dirci cos’è questo trattato e se possiamo ragionevolmente pensare di potercene liberare?

R.: Si tratta di un regolamento dell’Unione Europea che serve a definire le regole per determinare in modo oggettivo ed univoco quale Paese è competente per esaminare le domande di asilo. La regola che produce maggiore impatto è quella in base alla quale è competente ad esaminare la domanda di asilo il primo Paese UE nel quale la persona arriva, se non si tratta di un arrivo autorizzato (es: ingresso con visto, ricongiungimento famigliare etc). Chiunque subito comprende che questa regola scarica di fatto la gran parte della responsabilità sui paesi che hanno confini esterni dell’Unione. Come mai tutto ciò? La ragione va cercata nel fatto che il Regolamento di Dublino nasce, con un testo normativo diverso ma in fondo molto simile a quello attuale, molti anni fa, nel 1990, quando pressoché tutti i rifugiati che entravano in Europa si recavano subito nei paesi dell’Europa centrale e settentrionale mentre nei paesi del Sud, come l’Italia, nonchè nei paesi dell’Est Europa, la presenza dei rifugiati era quasi nulla. Il Regolamento nasce e si modifica (fino ad arrivare alla sua attuale versione, che è la terza) con l’obiettivo dichiaratamente politico di riequilibrare le presenze dei rifugiati (e quindi il carico dell’accoglienza). Tuttavia si è dimostrato da subito uno strumento giuridico rozzo ed ingiusto (anche perché tiene in scarsa o nulla considerazione la volontà dei rifugiati di raggiungere proprie reti parentali o amicali) che non ha mai funzionato. Oggi l’approccio del Regolamento è giudicato da tutti anacronistico e si discute nelle istituzioni europee di un necessario cambiamento sul quale tuttavia non si è trovato ancora alcun accordo.

D.: Il “modello Trieste” nel campo dell’accoglienza è stato oggetto di molti elogi e di molta riprovazione. Che cos’è, perché secondo lei è un modello, rispetto a cosa?

R.: Mah, un modello… non è una parola che mi piaccia tanto; direi che quanto abbiamo cercato di fare è una cosa molto semplice, anche se ha dietro una grande complessità: abbiamo cercato di gestire un grande cambiamento sociale evitando di cadere nella logica dell’emergenza ma mantenendo una dimensione di normalità. Noi pensiamo che quanto stiamo vivendo non è infatti un’emergenza nel senso di un fenomeno straordinario ma temporaneo, bensì pensiamo che si è prodotto un cambiamento strutturale. Il primo obiettivo da conseguire per gestire il cambiamento in un’ottica di normalità è quello di cambiare quell’approccio all’accoglienza che riteniamo sbagliato perché segregante (e che quindi rallenta l’inclusione sociale): nei limiti del possibile, vorremmo infatti eliminare la nozione stessa di centri di accoglienza per andare verso una situazione nella quale le persone accolte, dopo una fase di primissima accoglienza a loro dedicata si trovino a vivere nelle case dove viviamo tutti: è per questo che l’accoglienza la definiamo diffusa: sul territorio, nelle case, ovunque. Va detto che fortunatamente si tratta di una tendenza generale che si sta diffondendo in Italia, ma che a Trieste stiamo sperimentata per primi e con maggior diffusione e successo.

D.: È la Germania che ha aperto questa strada, stiamo seguendo un modello tedesco?

R.:Sì, ma molto parzialmente. L’Italia è stata investita del problema dell’accoglienza dei rifugiati, come si diceva prima, in tempi relativamente recenti, mentre i Paesi dell’Europa centrale possono vantare esperienze ben più consolidate nel tempo. Tuttavia, anche da noi si sta facendo strada l’idea di un’accoglienza “normale”, che eviti la ghettizzazione, i campi profughi, che sia quindi distribuita sul territorio, gestita quindi dagli enti locali, che devono essere in grado di affrontare, ognuno, piccole quote di accoglienza dei rifugiati. Tre anni fa si è dato vita a un sistema di distribuzione tra le regioni, che ha dovuto essere imposto con una certa durezza per far fronte a resistenze anche durissime di chi non voleva accogliere i rifugiati o per strumentalizzazioni ideologiche o per semplice inerzia al cambiamento. Il cambiamento è quindi iniziato ma il processo è lento e confuso perché il cambiamento concreto sui territori è ancora lasciato a scelte volontarie da parte degli enti locali, tra chi ha politiche aperte e lungimiranti e chi ha visioni ottuse e retrive. Bisogna al più presto giungere ad una riforma che attribuisca agli enti locali la gestione dell’accoglienza dei rifugiati quale ordinario servizio di natura socio-assistenziale. Un servizio, beninteso, che va interamente finanziato con fondi statali e con la definizione di parametri certi di redistribuzione. In modo che nessuno possa dire: “A me non interessa”.

D.: Perché ad arrivare sono principalmente giovani uomini?

R.: Non è sempre stato così: in questa fase si tratta in effetti di giovani uomini, soprattutto afgani e iracheni, ma anche siriani con famiglie. Bisogna comprendere come la composizione degli arrivi si modifica nel tempo, in funzione dei motivi che spingono alla migrazione forzata. La principale ragione per cui i rifugiati che ospitiamo in questa fase sono in assoluta maggioranza giovani di età compresa tra i 18 e i 25 anni è la fuga dall’arruolamento forzato nelle diverse milizie talebane in Afghanistan e in alcune aree del Pakistan. La fuga avviene con il consenso delle famiglie che mandano via i propri figli, talvolta ancora minorenni. Ciò che a uno sguardo superficiale può sembrare un fenomeno strano o persino irritante trova quindi una spiegazione molto chiara in una condizione di vita drammatica vissuta da questi ragazzi.

D.: Gira, almeno per i bar, un pensiero (se così si può definire) che si concentra nella formula “Prima gli Italiani”, che è quindi contrario ad ogni sussidio materiale che viene elargito ai migranti. Come si può rispondere, come ci si può contrapporre a una visione di questo genere?

R.: Spesso noi italiani manifestiamo una forte tendenza alla rimozione e ci dimentichiamo che l’Italia tra fine 800 e inizio 900 ha originato uno dei maggiori flussi migratori del mondo. E poi, quando fai presente questo dato che è tutto sommato recente, salta fuori l’altra obiezione: “Sì, ma noi andavamo all’estero per lavorare!”. Obiezione veramente paradossale e persino comica in quanto noi eravamo migranti economici, ovvero appartenevamo proprio a quella categoria di migranti verso i quali alcuni oggi i movimenti politici di estrema destra invocano i respingimenti di massa e la costruzione dei muri. A queste logiche distorte dobbiamo rispondere innanzitutto ricordando che, come ho già evidenziato, siamo lontanissimi da qualunque invasione e che le migrazioni, sia forzate che non, se gestite con intelligenza, sono un fattore positivo per la società in quanto creano ricchezza economica, sociale e culturale. Infine (ma forse dovrei dire, in premessa) dobbiamo ricordarci che la nostra libertà e il nostro sistema democratico-costituzionale, conquistato con grandi sacrifici sconfiggendo il nazifascismo, si fonda sul principio dell’universalità dei diritti della persona senza distinzioni di razza, nazionalità od origine etnica.

 

 

 

Maurizio Zacchigna

Social Comedy – Intrigo a via Doganelli,

Regia di Marko Sosič,

con Manuel Buttus, Roberta Colacino,

Daniele Fior, Adriano Giraldi,

Marcela Serli, Maurizio Zacchigna.

Assistente alla regia Tina Sosič.

Una produzione Mamarogi

ICS Consorzio Italiano

di Solidarietà Ufficio Rifugiati Onlus

Associazione Culturale Spaesati

Teatrino del Rifo

Coop. Bonaventura

in collaborazione con Il Rossetti –

Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia