Il cantiere, un affetto senza fine

| | |

In una nuova edizione La tuta gialla di Nordio Zorzenon

Un romanzo in qualche modo in ritardo (o in anticipo?) con i tempi

di Gennaro Rega

 

Ci sono libri degni di essere conservati in una ideale biblioteca “ritrovata”, come è il caso de La tuta gialla del monfalconese Nordio Zorzenon, prima edizione Milano, Mursia, 1971, poi in traduzione in lingua russa, Mosca, Progress, 1975, postfazione di Evgenij A. Ambarcumov.

Con lungimiranza se ne è accorta la piccola casa editrice romana Abbot, creata nel 2020, e che fa parte dell’ Adei (Associazione degli editori indipendenti). In questo modo, benché il suo progetto editoriale sia decollato nel pieno di una crisi economico-sanitaria che ha duramente colpito anche il settore librario, esso si è subito fatto apprezzare per alcune interessanti ristampe. I fondatori, Davide Callegaro e Luigi Petrella, hanno deciso di ripubblicare dopo un cinquantennio questo romanzo ingiustamente e troppo presto dimenticato. Ritengo non si tratti di un ripescaggio semplicisticamente nostalgico di un libro scritto nei primi anni del periodo storico della contestazione operaia e studentesca. La sua attenta rilettura convincerà forse la critica letteraria a dargli una più degna collocazione nell’ ambito del filone narrativo un tempo denominato della ”letteratura industriale” e oggi più genericamente “del lavoro”.

Al momento della pubblicazione (marzo 1971) le recensioni, in gran parte lusinghiere per un’opera prima, definirono La tuta gialla un “romanzo della fabbrica”. Nella narrativa italiana in quegli anni erano stati pochi gli esordi in questo filone. Nel 1966 il patavino e ingegnere Ennio Gallo, che per ragioni di prudenza professionale preferì pubblicare con lo pseudonimo di Paolo Barbaro, aveva proposto Giornale dei lavori. In precedenza, sul finire degli anni Cinquanta, quelli del boom economico, c’era stato un altro esordiente in questo genere letterario, il fiorentino Valerio Bertini. Ne Il bardotto (1957) ho riletto la stessa fresca immediatezza di alcune pagine del nostro autore. Mentre nella raccolta di racconti, Elogio del meccanico (1964) c’è il comune problema del conflitto fra mentalità artigianale dell’operaio e coscienza industriale. Infine il torinese Guido Seborga con il romanzo Gli innocenti (1961) aveva proposto una visione dolente e umana della fabbrica, riscontrabile anche in molti passi del libro di Zorzenon. Tralascio volutamente, per ragioni di spazio, nomi più noti come quello di Luigi Davì e Ottiero Ottieri.

Va sottolineato, però, che La tuta gialla rappresentò un unicum, mai più neppure in seguito riproposto, per quanto riguarda l’ambientazione della vicenda operaia: un cantiere navale. Soltanto Angelo Ferracuti che ha scritto la prefazione della nuova edizione, nel 2013 con  Il costo della vita, storia di una tragedia operaia scelse, usando la modalità del reportage e del realismo documentario, di rievocare la tragica morte a Ravenna di tredici operai adibiti alla pulitura delle stive della nave Elisabetta Montanari.

Tuttavia negli anni Settanta e seguenti la saggistica (come, ad esempio, Linea rossa di Giampaolo Borghello, Scrittori e industria della Elisabetta Chicco Vitzizzai, Romanzo della fabbrica e fabbrica del romanzo nell’Italia del boom e della crisi di Francesco Varanini)  non tenne in debita considerazione questo testo, se si esclude un brevissimo appunto alle pp.139-40 da parte di Ferdinando Camon in Letteratura e classi subalterne (1974). Neppure in alcune recenti ed accurate analisi su questo genere, pur meticolose nel delinearne i caratteri e l’evoluzione storico-letteraria, come, ad esempio, quelle di Giuseppe Lupo e Giorgio Bigatti in Fabbrica di carta  oppure di Claudio Varotti in Fabbrica. Luoghi della letteratura italiana, si trovano delle citazioni o delle considerazioni sul libro.

Perciò sembrano attagliarsi alle vicende personali e autorali di Zorzenon, le parole del suo conterraneo, Guido Crainz, che prefacendo il volume Tute blu (2006) dello storico Andrea Sangiovanni condanna «la straordinaria capacità di smemoratezza che ci [noi Italiani] caratterizza. La rapidità con cui sensibilità civili acquisite con grande ritardo [rispetto ad altri paesi industrializzati] si sono smarrite invece molto precocemente». Eppure anche in questo saggio che riecheggia nel titolo quegli emblemi (tute blu = operai, tute gialle = capi) della storia operaia del Dopoguerra, manca almeno un accenno all’intenso romanzo dello scrittore giuliano.

Nondimeno vi sono rappresentati  alcuni  personaggi (soprattutto Poldo, Fiore, Tobruk  inseparabili sodali di Sandro Visintin, il protagonista, che fanno parte della sua squadra nel cantiere) testimoni di una condizione operaia nella quale predominano la volontà di credere seriamente in ciò che si fa e di svolgerlo con cura. Essi esprimono orgoglio e consapevolezza per le proprie origini; si battono per la difesa e il rispetto dell’umanità di chi è impegnato in un cantiere o in una fabbrica, insofferenti verso i ricatti e i soprusi sull’ambiente di lavoro. Sarebbero anche disposti ad assecondare le trasformazioni che il mercato impone.

Ancora nei primi anni Novanta del secolo scorso erano questi i valori nei quali la maggioranza della classe operaia si riconosceva. Ma già sul declinare di quel decennio il signor Cipputi indossa una tuta blu o gialla più sbiadita, perché le statistiche del tempo ci rivelavano che fabbrica e lavoro per lui contano sempre meno. Al centro dello scenario sociale  avviato al nuovo millennio, si staglia ormai una grande classe media che ingloba tutti i lavoratori dipendenti della industria e degli altri settori (operai o impiegati che siano) e accanto o contro di essi nuove figure sociali (i precari, le cosiddette “partite Iva”, i lavoratori con contratti atipici o gli esternalizzati). I valori, gli stili di vita e i modelli consumistici e individualisti sono il collante di questa nuova classe che al proprio interno assomma segmenti e settori caleidoscopici pronti ad entrare in conflitto tra loro a causa di interessi economici diversi e divergenti. Il nostro paese, però, dopo la grande recessione economico-finanziaria del 2007, ha progressivamente riscoperto il ruolo del lavoro nella identità personale e ha in parte recuperato il senso della dignità individuale e collettiva dei lavoratori.

Dunque è possibile che il lettore d’oggi possa ancora rispecchiarsi nel carattere e nella tempra dei personaggi del libro di Zorzenon. Infatti non sfigurerebbe a confronto di molte delle opere letterarie che nell’ultimo ventennio hanno toccato, con rinnovato interesse, ogni forma di lavoro: operaia, impiegatizia, manageriale, precaria, e hanno usato tecniche narratologiche variegate: romanzo, inchiesta documentale (faction, cioè fact e fiction), racconto autobiografico, autofiction. Il bisogno di fare nuovamente i conti con il turbolento Presente italiano ha spinto la narrativa ad un “ritorno alla realtà”. Ma un altro merito de La tuta gialla è di non indulgere all’“Arcadia dei lavoratori”. Questo atteggiamento invece si è prodotto nei nostri anni per rappresentare, ad esempio,  soprattutto il precariato finché “col tempo ha finito per innescare una sorta di circuito consolatorio” (cfr. P. Chirumbolo, Letteratura e lavoro, 2013).

In questo romanzo invece non c’è nessuna autocommiserazione per la condizione subalterna e instabile che comunque anche negli anni Sessanta e Settanta gravava sui lavoratori dipendenti. Mentre risalta la fierezza che “lega un uomo alla sua professione (o mestiere) pari a quella che lo lega al suo paese d’origine” (cfr. Primo Levi in L’altrui mestiere, 2006). Cito Levi perché nel suo “romanzo della fabbrica”, La chiave a stella, del 1978, il protagonista, l’operaio metalmeccanico Faussone, esprime ancora passione per il suo lavoro e mostra delle notevoli competenze artigianali, simili a quelle di Sandro Visintin, personaggio centrale de La tuta gialla e in qualche modo alter ego dello stesso autore. Tutto il contrario “dell’operaio massa” di cui Nanni Balestrini cantò l’epica e il riscatto nel libro, Vogliamo tutto, pubblicato proprio nel 1971. Su questa linea procedettero i Guerrazzi, Nord e Sud uniti nella lotta (1974), i Donaggio, In fabbrica ogni giorno, tutti i giorni (1977), i Di Ciaula, Tuta blu (1978), i Norcia, Io, garantito (1980).

Forse anche per questo sul libro di Nordio Zorzenon cadde presto l’oblio. Era controcorrente perché pur trattandosi di un testo che mette al centro il cantiere e i suoi lavoratori, non massimalizza la lotta di classe, non descrive in modo manicheo tutti gli operai come “rossi”, i capi e i dirigenti come “neri”. Usa piuttosto l’arma dell’ironia, a volte dell’ umorismo, per pennellare quell’ambiente di lavoro che l’autore ha tratto dalla sua concreta esperienza quotidiana, badando a non cancellarne gli elementi di umanità.

Un romanzo quindi in qualche modo in ritardo (o in anticipo?) con i tempi. Infatti manca il diaframma minaccioso fra le generazioni di lavoratori in fabbrica o nel cantiere che il clima metropolitano esasperava; non demonizza, ma, sottotono, auspica una miglior fusione del cantiere nel contesto urbano di una piccola città, Monfalcone, che doveva continuare a mantenere il suo genius loci; sostiene la modernizzazione e l’organizzazione della cantieristica, se ci si libera dall’incompetenza e dalla meschinità delle molte persone preposte a dirigerla.

D’altronde gli anni di gestazione del libro vanno (come l’autore stesso precisò in un’intervista ad Angelo Rovetta) dal 1966 al 1970. Quindi, avendo Zorzenon lavorato per sedici anni nel cantiere della città dove abitava, prima come “tuta gialla”, poi come impiegato all’ufficio produzione, essi sono la diretta testimonianza di una complessa trasformazione sia della proprietà sia del modo di produzione di quel   luogo di lavoro.

Infatti all’ inizio degli anni Sessanta il Governo italiano costituì l’Italcantieri che operava a Monfalcone, Genova-Sestri, Castellamare di Stabia. Fu la risposta alle sfide lanciate dalla cantieristica mondiale. Erano in atto in quel settore profonde trasformazioni tecnologiche,  e occorreva essere ancora competitivi sul mercato. Nel libro è insinuante e assillante il problema di dover fronteggiare la concorrenza “dei giapponesi”. Un esempio lo si ritrova nella scena della riunione che il direttore generale tiene con i capi e gli ingegneri del cantiere. «Perché gli armatori si rivolgono a loro e non a noi? – continuò – I giapponesi per esempio assorbono metà delle commesse mondiali. Ma chi sono questi giapponesi? Chi sono? “ […] “Certo che laggiù la manodopera incide quasi niente sui costi di produzione – intervenne l’ingegner Pittoni – Gli basta un pugno di riso».

In un’altra sequenza, ecco il controcanto degli operai a proposito del conclamato cantiere fordista dai tempi stretti e dai cottimi ridotti all’osso che dovrebbe battere la concorrenza : «A me la storia dei giapponesi che gli basta una scodella di riso non mi va proprio – disse il vecchio [Giordano] – Sono carpentieri loro come lo siamo noi e sappiamo tutti che per batter la mazza ci vuol ben altro che riso!».

Le brevi citazioni che finora ho riportato confermano che ci accingiamo a leggere un testo che rimanda realisticamente al vissuto dell’autore, ma che, va anche precisato, viene rielaborato attraverso la sua immaginazione e la carica simbolica che egli attribuisce a fatti e personaggi. Da qui un suo particolare valore, oltre che artistico, anche “conoscitivo”. La vicenda di Sandro Visintin infatti esprime lo sforzo immane che tutto il cantiere di Monfalcone fece per restare al passo con i tempi, fino ad essere in grado nei primi anni Settanta di costruire superpetroliere da oltre 300 mila tonnellate di portata. L’ambizione di Visentin a vedersi confermato “tuta gialla”, è l’ambizione di un intero progetto industriale. Ma si può rinunciare alla propria identità per rincorrere un successo puramente economico? Accanto ad ogni progresso, si debbono contare delle perdite. Raggiungere un equilibrio fra carriera e ideali, fra obiettivi di mercato e dignità del lavoro, non è e non sarà mai facile. Lo conferma la conclusione amara del libro. «Maledetto cantiere!» grida Fiore come ad esorcizzare il problema della disaffezione operaia di fronte ad una realtà aziendale che lo vorrebbe ridotto a mero esecutore.

Come lui, Tobruk, Poldo, anche Sandro che di loro è stato in gioventù il “bardotto”, appare operaio capace e intelligente. Lui e i suoi amici formano una squadra affiatata che lavora duramente nella stiva della nave in costruzione. Paolicchi, un navigato dirigente che ha superato le epurazioni di coloro che si erano compromessi con il Fascismo, e ora ha un ruolo influente nel cantiere, nota le capacità e l’intelligenza di Sandro. Gli offre quindi, sorprendendolo, l’occasione di diventare “tuta gialla”, e lo nomina “capo” di una “barca”. Lasciata la “tuta blu” del semplice operaio Sandro capisce di dover lasciare dietro di sé anche il suo passato, la sua esistenza finora modesta ma tranquilla, la solidale comunità dei compagni, in particolare quelli che si ritrovano con lui per trascorrere il tempo libero nel “Bunker”, l’ osteria del Borgo, il quartiere tra mare e collina dove abitano. Dopo la nomina a capo  Sandro identifica sempre più la sua vita con quella del cantiere; i suoi interessi diventano quasi esclusivamente quelli della fabbrica, il suo volere quello dei “padroni”. Inevitabile il solco che si produce fra lui e il gruppo di un tempo. Tra una “tuta gialla” e una “tuta blu” non c’è solidarietà possibile. A questo punto la promozione sociale risulta una sconfitta umana. Il salto di carriera ha comportato infatti un meccanismo di sottili ricatti psicologici, a cui Sandro non riesce a sottrarsi. Da una parte c’è la fiducia in lui ostentata soprattutto da Paolicchi e che non può ormai più essere tradita. Dall’altra c’è la prospettiva di una lunga e remunerativa professione da affrontare, con la prospettiva del paradiso dei miti borghesi (la casa, gli elettrodomestici, l’automobile) a portata di mano. Questo meccanismo corroderà il personaggio e lo chiuderà progressivamente in una morsa di solitudine disperante.

Questa dunque la trama  che si innesta in una struttura compositiva, “geometricamente armonica” proprio come la “sua barca” che Sandro osserva, straniato, collocata sullo scalo il giorno prima del varo. «Ma non osò tener fisso lo sguardo […]. Era come se avesse voluto conservare il ricordo della barca che era stata sua quasi che sullo scalo adesso ve ne fosse stata un’altra del tutto diversa; quella che al pari di Paolicchi e del cantiere lo aveva ingannato e tradito

Per concludere cito semplicemente le parole che Nordio mi scrisse in una lettera del 1993: «La “tuta” ha avuto forse il torto di rappresentare un operaio reale e non quello canonizzato da consolidate sponde ideologiche o ipotizzato da intellettuali vogliosi di tutto, anche di folgorazioni sulla via della fabbrica.

Il silenzio dell’Unità, di Rinascita da un lato e la stroncatura dell’Avanti! dall’altro, la diceva lunga in proposito. A mia consolazione potrei far osservare che oggi l’operaio può pensare alla carriera senza incorrere nel peccato e che i colletti bianchi non sono più considerati dei nemici. Non vorrei, tuttavia, che lei mi attribuisse la presunzione di aver anticipato i tempi: ho voluto raccontare una storia, tutto qui».

 

Nordio Zorzenon

La tuta gialla

Abbot editore, 2020

  1. 256, euro16,00