Realtà e memoria di Caporetto

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di Luca Zorzenon

 

«Vorrei dire: con questa nuova edizione dei Vinti di Caporetto chiudo una partita iniziata personalmente oltre mezzo secolo fa, ma sono il primo a non crederci».

C’è un’eco dello Slataper del Mio Carso nelle parole con cui Mario Isnenghi avvia il Preambolo al suo Oltre Caporetto. che si avvale, per la parte antologica, della preziosa collaborazione di Paolo Pozzato.

Finché c’è storia, il passato è una memoria in continuo cammino; anche quello personale, dello studioso che da mezzo secolo non finisce di confrontarsi con la Grande Guerra, con Caporetto, con quel comunicato del 28 ottobre (con quei reparti della II Armata, vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico…): «Dialogo, si può dire, con il generale Cadorna da sempre», ammette lo storico.

Ma ancor prima, con se stesso dialoga Isnenghi in questo libro che è soluzione storiografica ben più importante di una semplice ristampa del suo primo studio, I vinti di Caporetto (1967, anche allora per i tipi della Marsilio). È qualcosa di meglio e di più: è un rimetterne, oggi, in circolazione storica le sue “inattualità”. Che non è un paradosso, e non è affatto un atteggiamento di difesa: semmai, piuttosto, di affermazione, della personale «partita» con se stesso di uno storico che è tale in primo luogo perché è, e sa di esser stato e di continuare ad essere, ben dentro la storia. Dentro la storia cinquant’anni fa, 1967, quando un ’68-’69 studentesco e operaio si annunciava e s’era schiuso il tempo di una svolta decisiva degli studi sulla Grande Guerra, irrigiditi entro i due poli ideologici, in diverso modo mistificanti o parziali, dell’ottica nazionalista veicolata e implementata dal fascismo e di quella democratico-repubblicana della “giusta” guerra di liberazione nazionale; dentro la storia di un oggi che celebra, invece, la fine delle grandi narrazioni, la fine delle ideologie e – chiosa con ironia Isnenghi – «secondo i più smodati, anche della storia». Libro del cinquantenario, I vinti; libro del centenario, Oltre Caporetto. Scrive Isnenghi: «Nel cinquantenario di Caporetto il fiducioso primato della storia politica rendeva possibile chiedersi ed esplorare – seguendo Cadorna – se il gettare le armi sottintendesse una ribellione attiva e mirata; ora, nel centenario, poiché – dicono – “la storia è finita” -, un esercizio residuale della storia sociale predispone semmai, all’insegna dell’ “inutile strage”, ad accettare per naturale e umano anche il solo disimpegno, il “tutti a casa” come valore in sé. Senza empiti e legittimazioni, né di “fare come la Russia”, né di corrispondere ai richiami civici degli ufficiali patrioti. “Fuori storia”, legittimamente e umanamente.»

Ed allora Oltre Caporetto, cinquant’anni dopo, rimette in circolazione attuale I vinti precisamente nel segno del rifiuto di far storia fuori dalla storia, ieri, come oggi.

 

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“Partita” che continua, dunque: se, tuttavia, la “partita con se stessi” non è per nulla fatto solamente soggettivo, o lo è e lo diventa solo in quanto radica se stessa nei discorsi pubblici che investono destini più generali e che di continuo la storia la ripensano e riattivano le forme della memoria collettiva. Ricerca tenace -filologica- del fatto e, insieme, studio della corrente delle interpretazioni, delle percezioni, delle trasfigurazioni successive, in quella che da sempre è la storiografia tipica di Isnenghi: un difficile, studiato, originale equilibrio tra fattualità e interpretazione, filologia ed ermeneutica, che su due assunti, in particolare, da cinquant’anni non ha ceduto “le armi”, ossia che il particolare non dissolva puntinisticamente la ricerca di un senso generale degli eventi; che (a dirla entro un niccianesimo un po’ corrivo, a suo tempo pur in voga) non esistano i fatti, ma solo le interpretazioni

E qui il fatto pare essere davvero esemplare: sostiene Isnenghi, da tempo, che Caporetto nasce di già, entro il suo accadere, come fatto che stura immediatamente le interpretazioni: «La caduta dei vincoli gerarchici che libera e sbriglia la fantasia, i sogni, le speranze, gli incubi». Caporetto nasce subito entro un circuito di sovradeterminazioni e un indotto politico di singolare complessità che già nelle testimonianze in medias res dà voce ad uno scatenato e pulviscolare immaginario di interpretazioni le più divergenti e frastagliate, relative, parziali, sempre incomplete entro un ansioso e frenetico affollarsi la cui immagine di immediata caoticità si giustappone agli aspetti fattuali del caos della rotta della II Armata. Caporetto per Isnenghi è «cosa» inscindibile dal suo esser nel contempo «parola», racconto plurimo nato nell’immediatezza dello sbando e corretto poi via via ex post, oggetto «labile» e «negoziabile», disponibile fin da subito a condizionare esiti politici futuri. Una deflagrazione narrativa entro la quale Isnenghi lungo cinquant’anni – è questo uno dei motivi di continuità fra i due libri – non rinuncia, per scandagli ogni volta progressivi, a rintracciare i collegamenti e un difficile filo rosso che ne individui il legame: in una parola, il senso. In ciò Caporetto si rivela – è uno dei tratti di fondo decisivi del discorso di Isnenghi lungo mezzo secolo – snodo campale della storia dell’Italia unita e delle forme in cui la società italiana la ripensa e vi si confronta fino ad oggi. Poiché dentro Caporetto convergono vertiginosamente il passato (da Lissa ad Adua, dal regicidio nella crisi politica e sociale di fine secolo alla cultura antiparlamentare che scredita e corrode l’ “italietta” giolittiana) e insieme la proiezione di un futuro sempre in bilico tra un negativo autobiografismo nazionale, quello di un’ Italia perennemente caporetta, e il revanscismo illusorio di una Vittorio Veneto come premessa nazional-demagogica di un’ Italia finalmente Grande. Miti – e Isnenghi se ne intende – diversi, ed entrambi negativi.

Caporetto è sconfitta militare per causa doppia: magistrale azione controffensiva degli austro-tedeschi e insipienza strategica e tattica degli alti comandi militari italiani. Ma gli studi di storia militare che continuano ancor oggi dai tempi di Bencivenga, Pieri, Monticone ad acclararne il dato non ne risolvono tuttavia il significato storico che nella storia d’Italia viene da lontano e prosegue oltre Caporetto fino ai giorni nostri. Caporetto (come la replica ancor più devastante, l’8 settembre) è simbolo di una ferita (originaria, e quanto rimarginata? Quanto ancora e sempre latente?) di una questione centrale della nostra storia: la scissione tra Stato e Società. Ritirata che si trasforma in rotta. Fuga collettiva e disimpegno individuale? Cadorniani viltà e tradimento del popolo contadino-soldato? Rivolta momentanea della sopportazione coatta delle masse in quella che si intese allora come la loro prima forma di inserimento organico nella vita dello Stato e che poi al Piave si incanala nuovamente nella rassegnazione del gregge? Fuochi sparsi di uno spontaneismo sociale e pacifista potenzialmente rivoluzionario, che nessuno sa cogliere e egemonizzare politicamente?

Non bastano dunque, avverte Isnenghi, gli studi settorialmente anche meritori, che ripropongono un’idea di Caporetto come evento solo tecnico-militare e talora, però, riducono la rotta a “leggenda”. Nemmeno basta maneggiare quantità sterminate di testi in modi indifferenziati che sfocino in esiti post-ideologicamente tautologici e che, col disincanto verso le grandi narrazioni, raccontino Caporetto al dettaglio microscopico; o, con l’ottica tutta versata al protagonismo delle vittime, colgano dei grandi e tragici fatti della Storia sempre e solo un uniforme non senso: “fuori dalla Storia”, appunto.

In Oltre Caporetto Isnenghi ripropone oggi molti dei testi e degli autori della parte antologica dei I vinti del 1967, con tagli e aggiunte con cui ne esclude alcuni canonici e nel frattempo divenuti più noti e reperibili (Frescura, Gadda, Prezzolini, Monelli, Malaparte, Palazzeschi, Bacchelli e altri), compensando con l’inserimento di pagine di Vittorio Alfieri, Antonio Pirazzoli, Antonino Di Giorgio, Guido Sironi e dedica la seconda parte a testi a noi inediti, reperiti e tradotti dal tedesco (il lavoro meritorio di Paolo Pozzato), voci di quei soldati e ufficiali austro-tedeschi vincitori a Caporetto prima d’esser, di lì a un anno, i vinti di Vittorio Veneto. E dunque, dentro questo nuovo confrontarsi con Caporetto, mondi ancora più frastagliati e variegati, percezioni e testimonianze duplicate, grigio-verdi e grigio-azzurre, trionfo e disperazione, autostime che fronteggiano disistime, in ottiche divergenti eppure, talora, sorprendentemente comunicanti: Mondi alla rovescia, nel denso saggio di Isnenghi che introduce e rilegge l’antologia odierna.

Nelle pagine di diario austro-tedesche il trionfo dell’invasione è vissuto da tante angolazioni: la nuova “spedizione punitiva” contro l’Italia fedifraga, gli stereotipi sugli italiani che non sanno fare la guerra e, per contro, l’esaltazione del mito tedesco del popolo militare, ma, nello stesso tempo, ufficiali colti che guardano con incantata emozione alla solare bellezza del paesaggio, e ripensano, come nuovi wanderer in divisa, alla tradizione tedesca del “viaggio” nella storia e nell’arte d’Italia. Comune a vinti e vincitori, poi, il “tratto festoso” che la frattura dell’ordine militare e il caos della rotta provocano, quella libertà “carnevalesca” del semel in anno licet insanire che scatena i bassi istinti del corpo, i saccheggi della “cuccagna”, la tragedia degli stupri.

 

 

 

 

 

Significativo però che tra i Vinti di cinquant’anni fa e l’Oltre di oggi Isnenghi non rinunci del tutto al Kurt Suckert (Curzio Malaparte) di Viva Caporetto!, a cui, pur se escluso dalla parte antologica, affida la parola conclusiva del suo saggio in una lunga citazione. Autore centrale, Malaparte, nella scrittura dei Vinti di Caporetto, poiché allora Isnenghi vi riconosceva l’unica voce di intellettuale capace di interpretare la rivolta dei santi maledetti come forma di ribellione “spontaneista” potenzialmente incanalabile verso una presa di coscienza politico-rivoluzionaria se a coglierne l’occasione vi fosse stato un partito socialista capace di sciogliersi dall’ambiguità della formula del «né aderire, né sabotare». Occasione perduta che scala la rivoluzione in rivolta e la rivolta in ribellione abortita, quando a dominarne il punto critico, scriveva Malaparte, non è un Danton, non è un Lenin, ma ancora e sempre il pur silurato Cadorna, dietro le spalle di Diaz, normalizzandone gli esiti in quel reintegro militare nella rassegnazione di massa alla sofferenza e al sacrificio senza persuasione del “buon popolo contadino” che torna a combattere sul Grappa e al Piave col fucile al posto della zappa, ed alla zappa pronto – casualmente salvando la ghirba – a ritornare, nella rassicurante condizione di una perdurante estraneità politica ai fini e ai destini collettivi.

Al “furore apocalittico” delle pagine di Malaparte per Isnenghi non si può tuttavia rinunciare, a quel suo «immaginario scatenato – ciò che rende Caporetto, comunque un fenomeno composito e una sconfitta diversa dalle altre, e non solo infame e infamante»: una «guida visionaria» che per Isnenghi «rimane insuperata».