Addio Novara bella

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Renzo Stefano Crivelli si cimenta con la narrazione breve

di Fulvio Senardi

 

Renzo Crivelli non cessa di stupirci. Adesso che, professore emerito dell’Università di Trieste, lasciando l’insegnamento attivo (e pur restando a capo della James Joyce School) è pienamente padrone del suo tempo, lo piega alle esigenze di una creatività, si direbbe, senza confini. A un Crivelli moltiplicatosi per quattro – il saggista (si ricorda la monografia T. S. Eliot pubblicata da Salerno), il giornalista del Sole24 ore e del Piccolo cui rimanda il volume Flash letterari recentemente uscito per Carocci, il drammaturgo (una mezza dozzina di opere rappresentate), il giallista (La regola di Tremaux) – si aggiunge ora un’altra faccetta. E intendiamo lo scrittore che si è messo alla prova sul terreno scivoloso della narrazione breve, racconto o novella come si voglia dire. Lasciando da parte la questione del pubblico, ovvero, per dire più chiaro, l’endemica scarsità di appassionati, in Italia, di un genere sempre posposto al romanzo, nonostante una ricca tradizione nazionale (che non tiene il confronto, ad ogni modo, con il monumentale corpus di short stories della letteratura anglosassone), e andando invece alla sostanza del problema, è facile capire come l’autore di racconti si trovi di fronte a un compito assai arduo. Deve coniugare densità e brevità e, come ricordava Henry James (non solo romanziere ma, pochi lo ricordano, anche fertile scrittore di racconti), non ha regole esterne cui appoggiarsi, stereotipi che gli reggano il gioco (tutto al contrario del romanzo giallo, l’ingombrante protagonista della odierna produzione letteraria, che offre consistenti sostegni anche all’ispirazione più pigra). È un piccolo mondo complicato quello del racconto, una narrazione che comincia e finisce in un battito di ciglia, e nella quale, nel giro di poche pagine, bisogna compiere il miracolo di accendere la curiosità e subito soddisfarla con scaglie di scrittura che trovano dentro di sé, “in its little self” (come annotava James nei suoi Quaderni), la propria ragione di essere, la propria logica e bellezza. Facile capire allora come lo scrittore italiano tenda in genere a schivare il racconto come il diavolo l’acqua santa.

Con Il fantasma del palazzo e altri racconti Crivelli ha deciso invece di correre il rischio e se la cava, diciamolo subito, piuttosto bene. Il titolo può portare fuori strada: i 14 racconti che il volume propone non giocano la carta della fascinazione dell’ignoto o del brivido dell’inaspettato. Salvo il primo, che più chiaramente degli altri svela una precisa ascendenza (nel segno di Buzzati, voglio azzardare) mancano entità sovrannaturali, rivelazioni improvvise e colpi di scena. Non per questo il libro difetta di fascino che risiede in una particolare cifra stilistica e di taglio del racconto. La magia di queste pagine promana dalla capacità di evocare, con una scrittura suggestiva quanto precisa nei dettagli, ambienti, luoghi, personaggi (questi ultimi descritti con cura quasi dickensiana), facendoci partecipi di uno specifico luogo di ricordo (e di mito), le terre dove l’autore ha trascorso l’infanzia, la giovinezza, e la prima parte della sua vita di uomo adulto, prima che il destino lo scagliasse nel mondo fino a questo nostro angolino d’Italia in cui, nonostante gli spigoli del carattere locale e le asprezze del dialetto, ritengo, con buone ragioni, si sia felicemente ambientato. In effetti la vasta pianura di risaie, tra Novara e Vercelli, che si allaga di un velo d’acqua trasformando il terreno in una placida distesa di mare, iridato dai puntini verdi delle piantine che crescono e, un po’ più a nord, la splendida serie di laghi scintillanti di luce, d’Orta, Maggiore e di Lugano, e dietro ancora, le imponenti catene di montagne, creano un ambiente naturale di rara bellezza, ed è qui che Crivelli, quasi per un omaggio alla sua terra, muove le pedine delle storie. Animando la pagina di descrizioni naturali, come si è detto, ma scavando pure nel destino dei personaggi, con particolare attenzione alle capricciose svolte della sorte e al gioco complesso delle psicologie, sempre approfondite con fine introspezione. I protagonisti sono spesso uomini che ritornano in luoghi divenuti ormai estranei, dove non ritrovano le facce amiche di un tempo e ad accoglierli sono i monumenti e le chiese, segni di una bellezza che conforta ma a cui manca il calore di un sorriso, e portando dentro di sé il tarlo di qualche senso di colpa o la macchia di una menzogna, moventi segreti che smuovono le acque in apparenza tranquille di narrazioni perfettamente. Ad ogni modo, se prevale nettamente l’umana comprensione per le storture e le inadeguatezze della “pianta-uomo”, si accende qua e là una luce ironica che brilla di indulgenza divertita e che richiama alla memoria certe caratteristiche della grande tradizione umoristica britannica.

Stupirà forse chi conosce l’attività di studioso di Crivelli, sul versante di quella stagione letteraria che gli anglosassoni chiamano “modernismo”, il fatto che egli recuperi un modo di narrare classico concedendo assai poco agli artifici – lo stream of consciousness, il discorso indiretto libero – che hanno rivoluzionato, nei primi decenni del secolo scorso le forme della narrazione. È come se volesse collocarsi prima di quella faglia epocale – i nomi sono ben noti: Joyce, Woolf, Mansfield, ecc. – di cui pure è stato attento studioso. Difatti la narrazione è sempre in terza persona, con un Io narrante di solito esterno alla vicenda, ma che va accuratamente squadernando ai nostri occhi, i personaggi ben solidi, gli ambienti riconoscibili. Ma c’è una logica in tutto ciò. L’ipertrofia dell’Io cui soggiace il narratore primo-novecentesco, che fagocita il mondo quasi per incapacità di sentirlo vero e di vivere in esso, trasformandolo in percezione, sensazione, parvenza, finisce per sfarinare la consistenza delle cose e ingrigire la specificità dei luoghi. Ed è proprio ciò che Crivelli, nei suoi vagabondaggi narrativi nel novarese, ma sempre a portata d’occhio della cuspide di San Gaudenzio, non intende fare. Narrativamente parlando, la concretezza e la verità di quell’ambiente gli sta troppo a cuore, né, aggiungo, rinuncerebbe, per rispetto del suo pubblico, ad una leggibilità agevole e serena per intorbidirla con qualche trucco d’avanguardia. Raccontare si sapeva un tempo, prima di me, confessa Rilke nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, per andare ad uno dei protagonisti della frattura di cui si è detto, ed Hofmannstahl mette addirittura in scena, inventandosi un elisabettiano Lord Chandos, un caso di afasia della scrittura.

Nulla di ciò affascina Crivelli narratore, non è questo il suo terreno di sfida ed è lungi da lui l’intenzione, peraltro anacronistica, di épater le bourgeois. In un certo senso la sigla del suo fare si riconosce tutta nell’ultimo dei racconti, di taglio distopico, forse uno dei più belli. In una pianura padana invasa dalle acque a causa del riscaldamento climatico, e dopo un’apocalisse che ha visto l’umanità dilaniarsi per mancanza di spazio, di cibo, di acqua potabile, un uomo, mosso da un «senso di nostalgia quasi doloroso», solca, a distanza di mezzo secolo dal disastro, il gran mare dove un tempo si estendevano campi e risaie, fino a ritrovare, appena sopra il filo dell’acqua, il pinnacolo della Basilica di San Gaudenzio, una specie di minuscola “isola” della memoria. Giunto in quel punto si lascia scivolare nelle profondità, figurandosi «tutto quello che stava sotto di lui: i tetti delle case, i campanili più bassi, le via lastricate, le piazze medievali. E le persone che passeggiavano ovunque, indaffarate in una bella mattinata senza problemi […] C’erano i suoi genitori […] Stava tutto lì sotto, uguale a sempre, sotto quell’enorme massa di acqua che aveva coperto ogni cosa». Una pagina di struggente nostalgia, che racconta il destino di tutti se solo all’idea di spazio si sostituisca quella di tempo, l’abisso che ogni giorno ingoia una porzione della nostra vita. Ed è un’alchimia che il lettore compie per automatismo, magari senza lucida coscienza, conquistato dalla suggestione di una metafora nella quale è cifrato il senso ultimo della condizione umana.

Renzo Stefano Crivelli

Il fantasma del palazzo

e altri racconti

Interlinea, Novara 2019

  1. 189, euro 15,00