Una voce da Dignano

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di Maurizio Casagrande

 

Custode della lingua quanto dell’umano che la abita – un’umanità necessariamente connotata nello spazio come nel tempo – simile in questo a una rabdomante che avverte la presenza di una vena d’acqua sotterranea al minimo vibrare del ramoscello che stringe nella mano (è lei stessa, del resto, a proporre la metafora della “fontanella zampillante” nella nota introduttiva, La mia voce, a p. 7), Loredana Bogliun ha consacrato se stessa e la propria poesia a vestali del dialetto istroromanzo di Dignano, salvando a questo modo la memoria di un mondo che non esiste più e che manifesta caratteri altrettanto simili nell’entroterra dell’Istria contadina come nella pedemontana veneta cantata da Luciano Cecchinel.

Sembra giungere direttamente dalla prima Cantica della Commedia il titolo di questa sua ultima silloge, in particolare se lo si legge in chiave antifrastica rispetto alle terzine dantesche che tratteggiano il profilo sinistro di Gerione, nel diciassettesimo dell’Inferno, incarnazione per antonomasia della frode.

E forse non si è troppo lontani dal vero nel supporre che proprio la frode, nei suoi multiformi sembianti di cui la storia ha fatto oggetto a più riprese la terra e le genti dell’Istria, sia l’oscuro signore che la poetessa tenta di esorcizzare con questa sorta di rito apotropaico in versi e in un dialetto quasi fossile, chiamando a raccolta, come il Tasso all’inizio del suo poema, le armate celesti e quelle ctonie, ovvero i luoghi e le stagioni dell’esistenza, i toponimi e i soprannomi di famiglia, i vivi come i morti, il sacro e il magico, la religiosità e la superstizione in un movimento a spirale che va dall’Istria alla Puglia passando per Friuli, Venezia Giulia, Veneto e Marche partendo da Dignano per toccare Varmo, il Delta del Po o Ischitella, terre parimenti consacrate ai poeti che più le rappresentano, come alla stessa poesia, ma anche alla fatica, al duro lavoro della terra e alla miseria contadina di intere generazioni.

Un’ulteriore chiave di lettura, e non semplicemente per quest’ultimo libro della poetessa di Dignano, potrebbe essere quella di una scrittura che si fa testimonianza, senza alcun risentimento e senza puntare l’indice accusatorio contro nessuno, concretizzando nella maniera migliore l’invito alla “dissimulazione onesta” che già era di Torquato Accetto grazie anche alla peculiarità di una lingua che, nell’atto in cui “ricopre” le cose di una patina arcaica e quasi fuori dal tempo, in quel preciso momento le rivela nella loro più profonda verità, per una poetica che elegge a sommo valore, anche negli enunciati o nella forma, quella semplicità e quei “semplici” già cari a Saba, vale a dire il padre, la madre, la nonna, il calzolaio, un portico, una vedova, una gallina, una luna connotata anch’essa come “contadina”, ovvero quell’universo agreste che ancora ci appartiene, visceralmente intriso di cristianesimo e residui di paganesimo: «i no capeissi sto preto / ch’el par inseina cisa // mei ghe deighi a pian / lassa in pase Dignan!» (abbandono, «non capisco questo prete / che sembra senza chiesa //  io gli dico piano / lascia in pace Dignano!», bandòn, pp. 25 e 50) con un’eco velata, ma forte, di tante pagine di Tomizza e un’implicita denuncia delle ambiguità del clero nelle vicende istriane.

Il sintagma Par Creisto, pertanto, si presta a una duplice lettura: assume sia valore di intercessione se non di complemento di vantaggio, oppure vale quale complemento di mezzo o di luogo nel senso di “attraverso/attraversamento”, come a dire che il poeta assume su di sé il carico della propria storia e di quella collettiva quasi in un’offerta votiva, o quale necessario momento di sintesi dialettica, col risultato di attribuire ai testi, come alla realtà che testimoniano, l’afflato dell’epos.

 

 

Loredana Bogliun

Par Creisto inseina imbroio

(Per Cristo senza inganno)

con una nota di Elis Barbalich-Geromella

Book Editore, Ro 2021

  1. 66, euro 14,00