Alla scoperta dei vini frizzanti

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Intervista a Massimo Zanichelli

di Cosima Grisancich

Potremmo definire piacevolmente insolita la presentazione del libro Effervescenze: storie e interpreti di vini vivi di Massimo Zanichelli. L’autore infatti si è presentato alla Libreria Lovat non solo con i suoi libri ma anche con quattro vini, rigorosamente frizzanti, da degustare durante l’incontro. Una formula vincente che ha coinvolto il pubblico con tutti cinque i sensi, dando la possibilità di assaggiare una tipologia di vino di nicchia: i vini frizzanti prodotti con metodo ancestrale.

Massimo Zanichelli è docente di cinema, saggista, documentarista, ma anche degustatore e wine writer per L’Espresso. Il volume non è una guida, ma un viaggio nel mondo delle bollicine rurali prodotte con la fermentazione in bottiglia. Durante la presentazione, condotta dal blogger e scrittore Federico Alessio, l’autore ci racconta la sua esperienza dalla terra alla tavola, attraverso i colori, i profumi e i sapori di un’antica tradizione: un elogio a una categoria di vini sconosciuta e poco valutata.

Perché un libro sui vini frizzanti?

Semplicemente perché non esisteva, il vino frizzante (definito anche ancestrale, integrale, col fondo, rifermentato in bottiglia o in francese sur lie che letteralmente significa sui lieviti) è una tipologia poco considerata, ritenuta di serie B. Io invece lo considero il più grande vino popolare del nostro tempo per bevibilità (per la gradazione alcolica moderata), durabilità ed economicità.

Ho deciso di raccontare questi vini di nicchia senza classificazioni o giudizi, facendo scoprire ai lettori un mondo antico e rurale, ma ricco di fascino. Al giorno d’oggi i vini rifermentati in bottiglia si producono un po’ ovunque, ma i territori storici maggiormente vocati sono le colline eroiche di Conegliano Valdobbiadene, Asolo, Piacenza, Reggio, Parma, Mantova e l’ Oltrepò Pavese.

A questa tipologia di vino vengono attribuiti molti nomi, ma il termine “vini vivi” è nuovo.

In effetti è un conio personale, solitamente si parla di vini veri, che ritengo un’espressione un po’ arrogante. I vini vivi vogliono rivendicare la tipologia produttiva di appartenenza attraverso la salubrità e evitando qualsiasi interventismo.

Non ho voluto usare il termine vini naturali, ma vivi perché animati dall’anidride carbonica e perché esprimono la loro terra e l’uva da cui vengono prodotti. I vini frizzanti vogliono far sentire la loro voce, non snaturando il vitigno.

Nel libro in ogni intervista con i produttori emerge il concetto di “artigianalità”, come lo spieghi?

La rifermentazione in bottiglia è il metodo più antico per produrre un vino spumante, la tecnologia poi ha portato all’utilizzo di autoclavi (vasche sotto pressione usate ad esempio per produrre il Prosecco con metodo Charmat) per gestire la rifermentazione del vino e ottenere le tipiche bollicine, ma non è sempre stato così, infatti prima dell’avvento delle autoclavi la formazione di anidride carbonica avveniva direttamente all’interno della bottiglia, più o meno come nel metodo champenoise (usato nell’elaborazione dello Champagne)

Si è passati da un metodo che potremmo definire artigianale: difficilmente riproducibile in larga scala, semplice e nato per essere il vino da bere nel quotidiano a un prodotto “industriale” molto preciso, ma di poca personalità.

Sono stati pochi i produttori che hanno tenuto duro durante il boom tecnologico degli ultimi due decenni ed hanno deciso di continuare sulla strada dei vini frizzanti, ma sono stati premiati perché da un paio d’anni si è verificato un ritorno alle origini e alle tradizioni: molti giovani tornano a lavorare la terra dei loro nonni e che i loro padri avevano abbandonato.

Qual è il segreto di un buon frizzante? E che caratteristiche dovrebbe avere?

Come tutti i vini di alta qualità bisogna utilizzare solo le uve migliori, perfettamente mature e quando si parla di rifermentazione naturale in bottiglia è a dir poco fondamentale perché, a differenza di altri spumanti, durante la fase produttiva non è possibile andare a correggere il prodotto, quindi bisogna partire da una base iniziale perfetta.

Un vino ottenuto con il metodo “Sur lie” fermentando a lungo in bottiglia acquista, dalla particolare convivenza con i lieviti, caratteristiche organolettiche davvero uniche: si distinguono dagli altri frizzanti per le bollicine finissime, per il delicato sentore di lieviti e per il gusto asciutto e piacevolmente amarognolo.

Infine sono vini dall’alto indice di conservabilità, cominciano ad esser buoni con il tempo, che non è un nemico come molti pensano, ma anzi è un sodalizio fruttuoso. Sono visti come vini effimeri e frugali, ma non è così. Cominciano a delinearsi a due anni dalla vendemmia.

Tutti i vini naturali sono buoni?

Negli ultimi anni è difficile trovare vini cattivi, c’è stato un innalzamento dello standard medio qualitativo, molto spesso ci troviamo davanti a un vino clinico, fatto bene ,ma freddo e che non dà emozioni; allo stesso tempo è difficile trovare un vino che produca vibrazioni che si instauri nella nostra memoria e che provochi in noi delle emozioni.

Cos’è il “fondo”? si beve oppure no?

Il fondo c’è perché i lieviti che sono all’interno della bottiglia trasformano lo zucchero in alcool e anidride carbonica, una volta svolti tutti gli zuccheri i lieviti muoiono e si depositano alla base della bottiglia. Questi residui hanno proprietà nutritive e digestive e rendono il vino velato, non perfettamente limpido. Vanno conservati rigorosamente in verticale per far sì che i depositi non si rimescolino al vino al momento della mescita. Se al contrario si va a shakerare la bottiglia prima di aprirla il vino avrà sicuramente un’aromaticità più elevata, con il rischio però di non far sentire la sua purezza.

Il problema per molte persone è l’ultimo bicchiere che risulta un po’ torbido e dall’aspetto poco invitante, invece per altri, anche intenditori, il fondo va bevuto, ma a parte.

 

 

 

Primo vino: Verdiso dei Colli Trevigiani IGT dell’azienda Gregoletti

Verdiso non è il nome del vino, ma del vitigno con cui viene prodotto. Era l’uva più coltivata tra il 1700 e il 1800 prima dell’avvento della Glera in Valdobbiadene.

Colore giallo paglierino scarico, con riflessi verdolini. Ha un profumo tenue, delicatamente fruttato. Il sapore è secco, presenta una componente citrina importante e il sorso è vibrante e succoso come una mela piacevolmente acerba, chiusura leggermente amarognola.

Secondo vino: Metodo Rurale Cantina Bellenda

Glera rifermentata in bottiglia senza solfiti aggiunti. Presentato in bottiglie da 1 litro con tappo meccanico (formato non più utilizzato che veniva impiegato all’epoca per il vino di casa).

Giallo paglierino intenso, naso agrumato accompagnato da un leggero sentore di miele d’acacia. Sorso morbido seppur effervescente, ben bilanciato da un’ottima mineralità e dalla chiusura sapida.

Terzo vino: Sasso Nero del Nure Tappo Corona Surlì Bianco dell’azienda Romagnoli

Il nome di questo vino, Sasso Nero, deriva dalla zona particolarmente ciottolosa che dona una dimensione ferrosa e minerale al vino.

Il colore giallo paglierino luminoso si vede già attraverso la bottiglia di vetro trasparente, al naso sentore di lievito, crosta di pane, pasticceria e agrumi essicati. Effervescenza delicata, sensazione di “cashmere” al palato, ottima freschezza, buona corrispondenza naso-bocca finale agrumato, ricco di complessità e piacevolezza.

Vino del piacentino a base di Ortrugo, uva ribattezzata Altruga che significa “altra uva” , non considerata per la vinificazione in purezza, ma spesso usata come uva da taglio.

Quarto vino: Sasso Nero del Nure Tappo Corona Surlì Rosso dell’azienda Romagnoli

Vino composto per l’80% di Barbera e il 20% di Bonarda.

Colore rosso rubino intenso con riflessi violacei. Al naso note di fragola e ciliegia matura che ritroviamo anche al palato,sorso caratterizzato da una buona acidità e una piacevole effervescenza che ne determina una semplice e facile beva. Ottimo con un tagliere di salumi o una minestra di legumi.