La terra rossa di Norma Cossetto

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Red Land, firmato dal regista esordiente italo-argentino Maximiliano Hernando Bruno.

Il delitto Cossetto resta una macchia nella storia del Movimento di liberazione jugoslavo, ma trarre da esso un giudizio generale, questa la palese intenzione del film, sarebbe come condannare tutta intera la nostra Resistenza puntanto l’indice su singoli abusi e deviazioni.

di Fulvio Senardi

 

 

Il Giornale, a firma Biloslavo, grida contro il boicottaggio che il film subirebbe. Gli fa eco l’incontenibile Salvini sulla pagina Face Book. Un film che tutti dovrebbero vedere, rilancia il senatore Gasparri. Intanto, mentre regista e attori sono stati trionfalmente accolti a Trieste nel palazzo municipale dal Sindaco, dall’Assessore alla cultura Giorgio Rossi e da Renzo Codarin, presidente ANVGD (invitato speciale Roberto Menia), il pubblico accorre, ma in misura modesta (testimone chi scrive), nelle sale. Ma di che cosa parliamo? Di Red Land, firmato dal regista esordiente italo-argentino Maximiliano Hernando Bruno.

Un film che racconta, con parecchie imprecisioni storiche e qualche ingenuità, gli ultimi giorni di Norma Cossetto, una giovane istriana di lingua italiana che agli inizi di ottobre del 1943 fu arrestata dai partigiani titini, subì crudelissime sevizie e, dopo ripetuti stupri, venne infoibata. Vicenda orribile. Che, con tragica specularità, si riprodusse in più contesti nella guerra più terribile per le popolazioni civili della moderna storia europea (proprio allora, per restare sull’Adriatico, incrementa la sua miserabile attività di torture e violenze, iniziata ben prima della caduta del dittatore fascista, la “banda Collotti” di “Villa Triste” a Trieste).

La capacità di coinvolgimento del film, nonostante una certa lentezza di racconto, è innegabile, come innegabile la forza simbolica che sprigiona. Da qui quella tendenziosità che lo rende tanto apprezzato e, curiosamente, non solo a destra. Passi che lo esalti Elena Dozza, assessore alla cultura del Veneto, e magari anche Paola Binetti, ora senatrice UDC, ma stupiscono le parole, riportate da Avvenire, del senatore Roberto Cociancich, figlio di esuli istriani: «Da Red Land emerge bene che l’antifascismo è stato utilizzato per operazioni che in realtà erano anti italiane. È grave la responsabilità della sinistra italiana che in passato ha agevolato una lettura negazionista, riduzionista, giustificazionista. Il film è intenso dall’inizio alla fine, e fa meditare: l’Istria era una piccola Unione europea di secolare convivenza tra popoli molto diversi […]».

Una “piccola unione europea” costruita sulla programmatica e violenta oppressione ed emarginazione linguistico-culturale, sociale e, va da sé, siamo negli anni del fascismo, politica, di una importante componente della società istriana, quella slava (maggioritaria, se contiamo insieme gli sloveni del nord dell’Istria e i croati, e assolutamente prevalente nelle aree centrali della penisola)? Colpevole la “sinistra italiana che in passato ha agevolato una lettura negazionista, riduzionista, giustificazionista”? Certamente, negli anni duri della Guerra Fredda e nel troppo lungo “disgelo”. Eppure non saprei dove collocare Raoul Pupo, il più equilibrato e stimolante fra gli storici italiani nel caso di specie (ricordiamo qualche titolo: 1998, Il confine orientale. Una storia rimossa, con Franco Cecotti; 2003, Foibe, con Roberto Spazzali; 2005, Il lungo esodo, ecc.), se non a “sinistra”, latamente intesa (per tacere del fatto che fu Concetto Marchesi, e sappiamo bene da che parte collocarlo, a volere nel 1949 che venisse assegnata alla Cossetto la laurea honoris causa).

Tre dunque, per spiegare meglio il giudizio di “tendenziosità”, gli assi simbolici del film: il primo rappresentato dall’Istria (apparentemente) pacifica e armoniosa nelle sue componenti etno-sociali, la “piccola unione europea” di Cociancich appunto (il film si apre sull’immagine di un pacioso branco di cervi messo in fuga da alcuni colpi di fucile), ancorché si ammetta che una lingua è proibita, perfino in chiesa, tanto che è meglio limitarsi a sussurrarla in famiglia. Il secondo espresso dalla barbarie che viene da oriente, una squadraccia partigiana (cui si aggregano alcuni italiani, traditori, suggerisce M. H. Bruno, della propria razza [?]). Squallidi individui le cui imprese, per così dire, si compiono a spese della popolazione civile, in special modo delle donne (è croata la vittima del primo stupro messo in scena). Una ciurmaglia di criminali ubriaconi cui, in assenza di ulteriori specificazioni, spetta però un valore di sineddoche (la parte per il tutto). Più che dei militari, dei bruti di alcova (eppure, qualche mese prima, il movimento di liberazione jugoslavo era riuscito a infliggere una dura sconfitta sul fiume Neretva alle forze di occupazione italo-tedesche e cetniche). Quindi, terzo asse simbolico, i tedeschi, raccontati con un montaggio alla Griffith: le fasi dell’avanzata militare in Istria alternate alle sevizie, sempre più efferate, cui sono soggetti gli italiani in mano agli slavi comunisti.

Chi non conosca la vicenda Cossetto potrebbe anche sperare che “i nostri” (?), arrivino in tempo. Soldati veri questi: rapidi, efficienti, inarrestabili. Da notare che gli atti violenti, di qualsiasi natura, sono tutti a carico dei partigiani e dei tedeschi. Gli italiani, badogliani o fascisti (messi insieme un po’ alla rinfusa), discutono sul da farsi al comando triestino del XXIII Corpo d’Armata (dove è sempre presente, per licenza poetica, il padre di Norma, semplice ufficiale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale ma mai ripreso con la divisa che sicuramente indossava con orgoglio), soffrono per i congiunti lontani, rompono, le donne, in strazianti lamenti… ma null’altro. Salvo il manipolo dei “traditori” (e la minima resistenza di carabinieri e camice nere attaccate in un presidio) nemmeno uno schiaffo a un ragazzino cui sia sfuggito un “dober dan”. Insomma, brava gente, come vuole la leggenda nazionale. Con la camicia nera, chi ce l’ha, per scrupolo d’eleganza (non lo si racconti agli ebrei, già da cinque anni discriminati e presto consegnati, siamo nell’ottobre del 1943, alle amorevoli cure delle SS).

Le funzioni simboliche sono, dunque, assolutamente chiare: le vittime (gli italiani, nel caso della Cossetto cosa atrocemente vera), gli aguzzini (i partigiani jugoslavi di fede comunista, guidati da un personaggio che sfiora il caricaturale, ghigno sarcastico, occhi di ghiaccio e denti da clinica del sorriso), i vendicatori (la Wehrmacht).

Ora, se M. H. Bruno non avesse voluto chiudere in doppia perentesi il delitto Cossetto, facendone un exemplum avulso dal contesto ma attribuendogli nel tempo stesso un’assoluta emblematicità storica, avrebbe forse potuto ricordare, nelle due ore e passa del film, almeno con un minimo accenno, una parola mormorata, un particolare, quanto, nella complessa vicenda dei Balcani nel corso della Seconda guerra mondiale, tali “funzioni” fossero mutevoli e intercambiabili.

Chi assiste alla proiezione senza un’adeguata preparazione storica resterà completamente all’oscuro del fatto che l’Istria multietnica fosse l’immediata e inquieta retrovia di una guerra d’aggressione portata nell’aprile del 1941 contro la Jugoslavia dall’Italia e della Germania. Piegata in poche settimane la resistenza dell’esercito regolare, l’Italia annette parte della Slovenia che, sottoposta a un duro controllo repressivo, diventa provincia del regno, crea uno stato fantoccio in Montenegro, estende la sovranità sulla Dalmazia costiera, con Sebenico e Spalato, mirando all’italianizzazione forzata (in nome del mito, ancora oggi rinverdito dalla schiera degli esuli di professione, di una fiorente italianità dalmata). La repressione spinge alla ribellione, che a sua volta provoca rappresaglie, la lotta partigiana intreccia istanze di classe e antagonismo etnico nelle regioni mistilingui, e non di rado scaturisce inizialmente nella forma di movimento spontaneo (per esempio in Istria nell’interregno di incertezza e disorganizzazione tra armistizio badogliano e occupazione tedesca), dove, come in ogni jacquerie, è facile che si scivoli nella violenza gratuita, si sfoghi la bestialità più bassa, i peggiori balordi si trovino a fianco dei patrioti.

Un quadro organizzativo e un inizio di coordimento la lotta partigiana aveva peraltro cominciato a trovarli già nel 1941 nella Osvobodilna Fronta (fronte di liberazione) in cui i comunisti sono forza prevalente e Tito il carismatico uomo-guida. Come ha spiegato Teodoro Sala, già docente all’Università degli Studi di Trieste (Il fascismo italiano e gli slavi del sud) di fronte a una resistenza vieppiù determinata la repressione italiana si fa sempre più dura e, a partire dall’autunno 1941, conduce a severe misure di polizia, a rastrellamenti e ad esecuzioni. Innumerevoli le vittime civili tra le popolazioni slave.

Non tutto ciò doveva essere spiegato nel film di Bruno, né si pretende che abbia letto Angelo Del Boca (Italiani brava gente, Neri Pozza, 2005), o Gianni Oliva (“Si ammazza troppo poco”. I crimini di guerra italiani 1940-43, Mondadori 2006), o Carlo Spartaco Capogreco (I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista -1940-43, Einaudi, 2006) o quei molti altri ancora che hanno contribuito a dissodare i campi dove il pregiudizio andava a pascolo; detto questo sarebbe utile sapere di quali consulenze storiche si sia avvalso e quali cattivi maestri lo abbiano condotto alla sua visione parziale e manichea, che trova ancora molti riscontri in un diseducato sentire comune.

Il delitto Cossetto resta una macchia nella storia del Movimento di liberazione jugoslavo, ma trarre da esso un giudizio generale, questa la palese intenzione del film, sarebbe come condannare la Resistenza italiana tutta intera puntando il dito sugli abusi e sulle deviazioni che certo non mancarono (ne ha scritto Giampaolo Pansa, con esagerata foga polemica, nel Sangue dei vinti) ma che nulla tolgono al suo portato di libertà e di riscatto. Altro e diverso il discorso su ciò che accadde nei territori multi-etnici della Venezia Giulia a partire dalla primavera 1945: la vittoria degli slavi del sud contro il “nemico ereditario” italiano è stata accompagnata da brutalità e violenze, di cui il delitto Cossetto non può però essere preso a simbolo, nemmeno per eccesso, come tendono a fare tutti coloro che coltivano e diffondono (di solito interessatamente) usurati stereotipi. È ovvio che qui il tema non può essere affrontato, ma si rimanda agli storici di cui sopra, a Raoul Pupo in primo luogo, mentre vanno ricordati, in campo narrativo, Materada e La miglior vita di Fulvio Tomizza, “letture obbligatorie” per chi voglia veramente capire.

Meglio sarebbe stato se il regista avesse cercato di sviluppare il versante “esistenziale” della vicenda, potenzialità cui dà voce un bravo Franco Nero nelle vesti del professor Ambrosin (evidente calco di Carlo D’Ambrosi, uno degli intellettuali istriani, esperto di geologia ed idrologia e docente, dopo la guerra, all’Università di Trieste, cui la Cossetto era usa chiedere consigli per le ricerche della sua tesi), così come fece Olmi con Torneranno i prati raccontando la Grande guerra con una torsione verso l’assoluto dei grandi valori sovra-storici. Il germe della violenza che si annida nell’Uomo, la lusinga del male che determina le sue azioni, in pace e, peggio, in guerra, è il messaggio laterale che Ambrosin consegna allo spettatore, ma troppo flebile ahimè per prevalere sulle sfocate ambizioni di Red Land di esprimere un giudizio storico complessivo e senza appello. Attendiamo che qualche intellettuale, in questa Italia del Terzo millennio, anestetizzata e rassegnata, abbia voglia di prendere la parola sui grandi giornali per dar vita ad uno di quei dibattiti di cui da troppo tempo sentiamo la mancanza. Oppure anche su Face Book, se Salvini permette.