NEL DISONORE DELLA FORCA

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La foresta degli impiccati di Liviu Rebreanu

di Fulvio Senardi

 

Di Liviu Rebreanu la versione rumena di Wikipedia, l’enciclopedia on line più consultata (e più saccheggiata) del mondo, ci dice tutto; niente o quasi invece le voci analoghe nelle più diffuse lingue europee: miseria di una globalizzazione che restringe gli orizzonti e omologa con la forza di uno tsunami. Nato nel 1885 nella Transilvania soggetta alla corona di Santo Stefano e morto a Bucarest nel 1944 Rebreanu rimane comunque, a dispetto delle insufficienze di Wiki, uno dei maggiori scrittori rumeni del Novecento, l’anello di passaggio da una narrativa rurale di spiriti ottocenteschi al moderno romanzo psicologico. Una modalità di racconto che Rebreanu sperimenta per la prima volta nella Foresta degli impiccati, pubblicato nel 1922 in rumeno (sette edizioni, fino al 1940) con il titolo Pâdurea spânzuraţilor (di poco successiva, 1930 la traduzione in italiano di E. Loretti con prefazione dello scrittore-giornalista Luigi Tonelli – volume ovviamente introvabile – e, nel 1932, in francese, lingua in cui è disponibile dal 2006 una nuova traduzione: La forêt des pendus, editions Zoe, Ginevra). Il romanzo trae spunto da una dolorosa vicenda personale e sceglie come titolo la poderosa metafora che regge l’impianto narrativo. Quanto al primo aspetto, bisogna spiegare che il fratello di Liviu, Emil, ufficiale di nazionalità rumena nell’esercito imperial-regio, subirà nel maggio del 1917, il mese della grande controffensiva dei russo-rumeni contro gli austro-tedeschi, un processo per tradimento che lo porterà sul capestro. Sorte cui Liviu sfugge perché, pur allievo di un collegio militare ungherese, il Ludoviceum di Budapest, lascia già prima del 1914 l’Ungheria, sottraendosi così all’arruolamento e a pericolose tentazioni. Casi esemplari entrambi di una condizione oggettivamente irredentistica che, negli anni della guerra, provoca dolorose contraddizioni che fanno maturare scelte irrevocabili. Il titolo si riferisce invece a quanto il capitano Klapka racconta al protagonista, il tenente Apostol Bologa di etnia rumena ma in servizio nell’esercito imperiale: una tremenda esperienza vissuta sul fronte italiano, che finisce per diventare metafora delle innaturali costrizioni cui sono obbligati i soldati dell’armata multinazionale e, insieme profetica anticipazione del destino cui andrà incontro lo stesso Apostol, un giovane che ha iniziato la guerra con un sentimento misto di ambizioni personali, velleità eroiche e fedeltà dinastica, convinto che «non c’è che la guerra per rigenerare le energie» e che è dovere degli ufficiali reprimere con severità ogni forma di tradimento, avvalendosi degli strumenti messi a disposizione dal Codice di guerra. Così dunque Klapka, reduce dal fronte italiano:

Tre ufficiali del mio reggimento, uno dei quali della mia stessa divisione, cechi tutti e tre, sono stati catturati fra le linee, una notte. Avevano con sé dei piani, delle carte, dei documenti segreti. Era in progetto che fossi insieme a loro, ma avevo ricevuto quel giorno stesso una lettera da casa e mi ero nascosto come un ladro. Una lettera che mi ricordava che avevo una casa, dei figli, una moglie […]. Questo non ha impedito che venissi tradotto per complicità davanti alla corte marziale. Là ho negato, li ho rinnegati, li ho respinti, come dei lebbrosi, e mi sono stretto, come un annegato, a questa vita di menzogna. E loro non hanno detto niente, non hanno nemmeno avuto del disprezzo per me. La falce della morte scintillava davanti a loro e non hanno nemmeno chiuso gli occhi … Poi, sotto la minaccia del capestro, si sono messi a gridare all’unisono, davanti alla Corte: “Viva la Boemia!”, mentre io tremavo nel mio angolino, come un mendicante che attende l’elemosina. […] A fianco del villaggio c’era una foresta dove l’esercito aveva aperto dei sentieri nascosti che portavano in prima linea, al riparo dagli aeroplani italiani. Con il corteo dell’esecuzione, ne abbiamo imboccato uno che portava a una grande radura. […] La foresta era piena di impiccati. […] Ho chiuso gli occhi e mi sono sentito pronunciare, con lo stupore di uno sciocco: “la foresta degli impiccati, è la foresta degli impiccati”. Un maggiore ungherese, alto e dal profilo di uccello da preda, mi ha mormorato, forse per provocarmi: “sono tutti cechi, i soldati come gli ufficiali, solo cechi”. […] Quando si è messa la corda al collo dei tre condannati, li ho guardati con attenzione negli occhi … brillavano in modo atroce come le stelle del mattino che annunciano l’aurora e c’era tanta grandezza e speranza nel loro sguardo che tutto il viso sembrava circondato da una luce di gloria. Allora mi sono sentito fiero d’essere un fratello di quegli impiccati e ho sentito in me una immensa brama di morte. Ma ciò non è durato che un istante, un brevissimo istante.

Ancora il lettore non sospetta – siamo appena al primo quarto del romanzo e la fedeltà imperiale del tenente Bologa non conosce incrinature – che uno stesso destino attenda il protagonista alla fine del suo lungo percorso nelle anticamere della guerra (in un libro dove nemmeno una scena è dedicata ad episodi di combattimento, e non senza una giustificazione realistica, visto che Bologa è ufficiale di artiglieria). Anch’egli dunque condannato nell’epilogo a subire il disonore della forca in una foresta di impiccati altrettanto macabra di quella che apre il romanzo ma popolata in questo caso dei corpi di contadini rumeni. Con gli occhi accesi di una stessa luce di speranza per il futuro e di orgoglio per la scelta compiuta degli ufficiali cechi di cui Klapka ha narrato la sorte. Ma più della trama, che ripercorre in fondo lo schema del romanzo di formazione, ciò che maggiormente colpisce è la costruzione del personaggio, di cui il narratore in terza persona esplora con puntigliosi sondaggi i labirinti interiori. Siamo in quell’ambito che Ortega y Gasset (Ideas sobre la novela, 1925) ha definito «effetto di intensità»: le vicende esteriori vengono scarnificate, ridotte a un nudo reticolo di fatti inessenziali, mentre si ampliano a dismisura i loro riflessi nell’interiorità, secondo il modello, così il filosofo spagnolo, di Dostoievski, il grande iniziatore del moderno romanzo psicologico. Ed è proprio l’esempio di Dostoievski che, almeno come punto di partenza, sembra prevalere in questo libro: scartata la via “cartesiana” di uno scavo nell’Io seguendo il modus operandi del romanzo psicologico francese di fine Ottocento, di Bourget in particolare, che approfondisce i moventi interiori seguendo un obiettivo di chiarificazione alla luce di un sofisticato esprit d’analyse, probabilmente ignorato l’insegnamento freudiano che, su un doppio spartito di ermeneutica e terapia, prevede l’individuazione di pulsioni inconsce che affiorano irriconoscibili alla coscienza in forma deviata e mascherata, Rebreanu esplora il mondo psichico del suo personaggio tenendo ben presente la sua natura aperta, mossa, irrisolta, al limite inconoscibile; situandosi a metà strada tra Bergson e Pirandello: «il mio stato d’animo», scriveva infatti il filosofo francese, «fa per così dire valanga con se stesso»; e Pirandello richiamandosi a Pascal: «non c’è uomo che differisca più da un altro che da se stesso nella successione del tempo». Sentimenti e ideali, posti nel segno fulmineo di effimere passioni della mente e del cuore, entusiasmi e delusioni accese e spente con capricciosa intermittenza attraversano come lampi un’interiorità magmatica incapace di trovar quiete di fronte a ondate emozionali che scuotono la saldezza dell’Io, lo spingono con moto inesausto verso nuovi contenuti affettivi, morali, ideali, verso momentanee e cangianti volizioni, in un inquieto confronto con gli altri e con il mondo della vita, ma sempre al di qua di una lucida e ferma concettualità, di un approdo solido in risolte certezze. Quand’anche si tratti degli ideali più alti, ai quali il personaggio sembra in conclusione convertirsi con dedizione finalmente convinta (i valori della nazione come comunità di sentire e di destino, o della religione cristiana come fede nell’amore, punti d’arrivo in cui lo conforta l’immagine rassicurante del padre che per essi aveva conosciuto la prigione), si ha l’impressione che tutto ciò si accampi in un provvisorio tempo d’attesa, passibile, se mai ne fosse data l’occasione, di evoluzioni ulteriori e imprevedibili. Si direbbe, per avvalersi della semiologia di Eco, che qui l’intentio operis contraddica platealmente l’intentio auctoris: se, nella sua veste esteriore, La foresta degli impiccati potrebbe infatti sembrare un romanzo di guerra o un poema della patria ritrovata in un’epoca di massima polarizzazione di ideali, superando letture troppo comode che ne tradiscono la provocatoria ricchezza il romanzo finisce invece per apparirci, in linea con la sensibilità degli Svevo, dei Proust, dei Joyce, come una profonda indagine intorno alla natura fluida e indecifrabile della psiche umana, di fronte alla cui abissalità la realtà stessa si manifesta come illusione, uno sgocciolare di eventi che provocano echi imprevedibili nella tessitura profonda di un mondo psichico che, franoso retroterra dell’esercizio della volontà, in continua fermentante eccitazione, «fa per così dire valanga con se stesso».