Le parole di Natalia

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Daniela Gattorno e Sara Alzetta hanno creato uno spettacolo intelligente e spumeggiante curandone, oltre alla selezione dei testi e alla recitazione, anche la regia

di Walter Chiereghin

 

Nell’ambito della rassegna Trieste Estate 2020, sicuramente la più complicata dal punto di vista gestionale e organizzativo a causa delle limitazioni imposte dalla necessità di mantenere il distanziamento sociale, è stata registrata al Museo Sartorio, lo scorso 5 agosto, una pièce teatrale ideata e validamente condotta da Daniela Gattorno e da Sara Alzetta. Titolo dello spettacolo è stato Le parole di Natalia, il cognome sottinteso, come vedremo, è naturalmente Ginzburg.

Non sembri vagamente consolatoria né, men che meno, negazionista o riduzionista della pandemia la considerazione che appena sussurro, secondo la quale al male del morbo che infuria fa da contraltare, in questo caso, un bene, nel senso che – se è risultato impossibile godere dello spettacolo “in presenza”, come adesso si usa dire – possiamo tuttavia vederlo e rivederlo ogni volta che ci aggrada grazie al canale youtube del Comune di Trieste (https://www.youtube.com/watch?v=_dtzoZr7S-k).

La sceneggiatura è organizzata con una selezione di testi tratti dall’opera letteraria di Natalia Ginzburg (Palermo, 1916 – Roma, 1991), che da decenni delizia quanti la leggono per la piana discorsività della sua prosa, capace a volte di passaggi di spumeggiante esuberanza, entrambi registri associati peraltro al rigore del suo impegno creativo e civile, nonché a una acuta osservazione psicologica dei personaggi che mette in scena, sia quelli della vita reale – per esempio il padre dell’autrice, lo scienziato e docente universitario triestino Giuseppe Levi, in Lessico familiare (1963) – che quelli immaginari, come Giuliana, la protagonista di Ti ho sposato per allegria (1966), o Vittoria, domestica sui generis, oppure ancora la suocera di Giuliana nella stessa commedia.

L’idea di esplorare l’opera letteraria della Ginzburg per ricavarne uno spettacolo teatrale– ci ha raccontato Daniela Gattorno – era nata tempo addietro, nel 2016, in occasione del centenario della nascita della scrittrice e la selezione di testi che ne è uscita, sfogliando le pagine del romanzo autobiografico e della commedia citati sopra – ma anche di Caro Michele (1995) e di Tutti i nostri ieri (1952) – mette in evidenza il carattere discorsivo e familiare della narrazione, eludendo i tratti drammatici o tragici che del resto nella produzione letteraria dell’autrice non sono che marginalmente rilevati da un primo piano che sembra quasi sottacere le prove cui la sua biografia di donna, di ebrea, di antifascista, di vedova di un martire della Resistenza l’aveva invece duramente sottoposta.

L’antologia che Alzetta e Gattorno hanno assemblato pare avere come denominatore comune la condizione della donna e le modalità, talvolta singolari e sempre problematiche, del suo rapportarsi con l’altro genere, argomento ricorrente nell’opera della Ginzburg, ma riproposto con garbata ironia negli episodi che compongono Le parole di Natalia, fino a far percepire il testo come una narrazione sostanzialmente unitaria anche se frammentata nei monologhi e nei due dialoghi interpretati dalle due attrici, che possono avvalersi, negli spaccati che mettono in scena, della finezza dell’analisi psicologica che impronta la prosa della scrittrice.

La subordinazione femminile nel rapporto di coppia, come si manifesta nel lessico familiare dei Levi, le sotterranee solidarietà con compagne inopinatamente transitate, al primo incontro, dal ruolo di antagoniste a quello di amiche sororali grazie al riconoscimento della pochezza dell’uomo amato da entrambe, il divertito monocorde periodare dell’anziana suocera, prigioniera di un perbenismo conformista e borghese preoccupato esclusivamente dell’apparenza, il rendiconto alla madre, in una conversazione telefonica, di un matrimonio ormai agli sgoccioli, danno luogo, nella rappresentazione scenica, a un piccolo drappello di figure femminili dietro le quali non è difficile intuire la massiccia presenza di milioni di donne che, proprio negli anni in cui si venivano pubblicando i romanzi e la commedia utilizzati nel copione dello spettacolo, andavano rapidamente prendendo coscienza della propria condizione personale e collettiva. Di questa componente di carattere civile e delle implicazioni sociali del movimento delle donne non vi è, apparentemente, traccia nei testi proposti da Alzetta e Gattorno, ma dalle prime alle ultime battute si percepisce, anche nella leggerezza dei toni e nell’autoironia costantemente praticata, l’esistenza di una riflessione seria e autenticamente vissuta dalla scrittrice e dalle donne della sua generazione, in un periodo storico di appropriazione dei diritti civili. è difatti del 1970 la legge Fortuna-Baslini che introduceva il divorzio in Italia, del 1975 la legge che ridefiniva il diritto di famiglia per renderlo più coerente con i precetti della Costituzione, del 1978 quella sull’interruzione della gravidanza, obiettivi di emancipazione ottenuti – e difesi nei referendum abrogativi – grazie al decisivo e determinate impegno delle donne di ogni età e condizione sociale.

Anche se si avverte come una musica di sottofondo, di questo afflato collettivo di carattere civile non vi è traccia nei testi adottati dalle due attrici, impegnate come felicemente riescono ad essere a mettere in scena storie, comportamenti e riflessioni di donne all’apparenza disorientate e subalterne, che proprio nel loro confidenziale narrarsi trovano gli strumenti psicologici e morali per affrancarsi dalla loro condizione, finendo per superare quasi in allegria abbandoni, marginalità, solitudini, sberle subite e gravidanze non cercate.

Daniela Gattorno e Sara Alzetta hanno creato questo spettacolo intelligente e spumeggiante curandone, oltre alla selezione dei testi e alla recitazione, anche la regia che, per quanto apparentemente semplificata, rivela invece un’accuratezza e una perizia veramente di grande professionalità: basti pensare all’idea di far canticchiare alle protagoniste alcune canzoni italiane che, di per sé, rende edotti gli spettatori circa l’epoca cui si riferisce la storia narrata. La consumata esperienza attoriale delle due ha fatto il resto, regalando agli spettatori motivi di riflessione confezionati in una brillante, estrosa, talvolta pirotecnica esposizione. Del resto, come si afferma nell’ultima battuta del testo proposto, «il mondo è molto avaro di tragedie, ci regala invece un florilegio di barzellette».