Ricomincio da Nomadland

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di Stefano Crisafulli

 

Spazi aperti, libertà di andare dovunque ci porta il vento, strade che si dirigono verso l’infinito. Sono queste le principali suggestioni che Nomadland, il film della regista cinese Chloé Zhao vincitore di numerosi premi (tra gli altri il premio Oscar per il miglior film, per la miglior regia e quello più che meritato alla straordinaria Frances McDormand per la miglior attrice protagonista), offre allo spettatore. Ed è un film che andava visto al cinema, non su piattaforme digitali o sul tablet o su qualche altra presunta soluzione alternativa. Per nostra fortuna (di noi tutti, non solo dei cinefili accaniti) Nomadland è uscito nelle sale cinematografiche il 29 aprile 2021, in perfetta coincidenza con la riapertura dei cinema concessa dal governo italiano dopo un periodo di lunghissimo stop, che durava da ottobre 2020, dovuto alla pandemia in atto. E il sottoscritto, con grande commozione, ha potuto sedersi ancora una volta sulle poltrone del cinema ‘Giotto’ per gustare quella meravigliosa opera d’illusione che chiamiamo abitualmente ‘film’. Certo, con circospezione, con le distanze giuste dagli altri spettatori e con tutte le prudenze del caso, compresa la mascherina tenuta per tutto l’arco della proiezione, ma poi, quando il grande schermo si accende e inizia la storia ci si dimentica di tutto il resto, anche di sé stessi. E si viaggia.

La storia, dunque. Fern, una donna di sessant’anni che ha perso il lavoro e il marito, interpretata con la solita naturale aderenza al personaggio da Frances McDormand, prende il suo furgone e attraversa gli Stati Uniti per raggiungere una comunità di nomadi, tutti con storie diverse ma con lo stesso intento di mollare gli ormeggi e non avere più un tetto sopra la testa. Il furgone o ‘van’ diventa, infatti, la sua nuova casa. Per poter sopravvivere svolge lavori occasionali, ad esempio nei magazzini di Amazon, senza troppi introiti ma, in cambio, con la possibilità di una vita a contatto con la natura, anche quella più aspra del South Dakota, e, soprattutto, libera da legami affettivi stabili (sostituiti da quelli, magari profondi ma temporanei, incontrati lungo la strada), dalla frenesia degli impegni cittadini e dalla tirannia del tempo che nella civiltà occidentale sembra non bastare mai. Se lo spettatore all’inizio si identifica abbastanza con questo desiderio di non avere una fissa dimora e di abbandonarsi alla vastità del mondo, anche perché è da un po’ ormai che la pandemia ha cancellato la possibilità di viaggiare, a poco a poco la sensazione è quella di una realtà meno credibile rispetto alle prime inquadrature: in Nomadland non ci sono conflitti, né tra l’ambiente esterno e i nomadi, né tra i nomadi stessi, e sembrano mancare pure i conflitti sociali, tanto che una multinazionale come Amazon, notoriamente poco interessata ai diritti dei lavoratori, diviene addirittura un’ancora di salvezza per aspiranti girovaghi.

Se si guarda il film di Zhao in profondità, però, ci si accorge che i conflitti sono soltanto sotto traccia, ovvero non emergono in superficie: ci si aspetta da un momento all’altro che esplodano in tutta la loro violenza, come purtroppo spesso accade in una nazione come gli Stati Uniti, attraversata da tensioni sociali e razziali. E si percepisce l’assenza di welfare statale nella decisione stessa di Fern, che deve adattarsi a vivere con poco o nulla, anche se la scena di un amico nomade che viene accolto in ospedale per un’operazione senza che gli venga chiesta l’assicurazione è, di nuovo, poco credibile. Detto questo, però, il paracadute sociale per nomadi pentiti rimane sempre il proprio nucleo famigliare, piuttosto benestante e tradizionale, con grandi case spaziose e idee stanziali. E il conflitto, in fondo, non esplode mai, rendendo la storia un po’ piatta, anche se di indubbio fascino visivo. Va spesa un’ultima considerazione per le musiche evocative di Ludovico Einaudi, finalmente utilizzate in modo adatto al contesto, dopo tutta una serie di film in cui risultavano ridondanti o persino fuorvianti.