Davanti a Trieste. Esperienze di un fante sul Carso

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Non ci tragga in inganno la Trieste che spicca nel titolo del libro di memorie del tenente Puccini (1887-1957), volume che raccoglie episodi di un 1916 ai bordi appena di una troppo lunga ecatombe (Davanti a Trieste. Esperienze di un fante sul Carso, 1919, ora Mursia, 2016, p. 295, € 12): è solo un beffardo inganno del desiderio, un fantasma che appare e si allontana. «I fanti volevano giungere fin lassù», racconta lo scrittore al fronte con la III Armata del Duca d’Aosta, nella speranza che dietro un’altura «Trieste forse si nascondeva. […] Si camminava, si camminava, e non un austriaco, non un cavallo di Frisia, non una trincea! Forse la strada di Trieste era aperta!». Aperta non sarà, né allora né mai, e le truppe in grigioverde sfileranno nella città di San Giusto solo dopo il crollo totale dell’Impero, vittoriosi sì, ma non per effetto di quell’inarrestabile balzo in avanti che è nelle fantasie del nostro Giani Stuparich, anch’egli, e grandissimo, diarista di guerra. Ma, per chiarire meglio, dopo la conquista di Gorizia che aveva tanto rinvigorito gli animi, era certo il sogno di Trieste a carezzare la fantasia di un esercito troppo sicuro di sé (e dei suoi ufficialetti, nutriti di Mazzini e di De Amicis), nei due mesi al fronte carsico di cui fa tema lo scrittore, marchigiano di nascita ma maturato in contatto con gli ambienti della «Voce» fiorentina. Il diario di trincea (uno dei tre volumi della sua trilogia di guerra) che ora Mursia ripropone, venne parzialmente pubblicato in rivista nel 1917 e, a leggerlo oggi, può indubbiamente vantare, pur nelle diverse focalizzazioni dei suoi vari capitoli, una «raggiunta unità tonale», come propone Tancredi Artico nella dotta postfazione: ben dentro la guerra, con la morte costantemente in agguato, l’odiato nemico che a tratti rivela squarci di inattesa umanità, la giornata come un filo sottile di momenti apparentemente uguali e perfino insignificanti, ma che improvvisamente potrebbe spezzarsi e precipitare nel nulla: la banalità dell’orrore, potremmo dire. E tutto ciò in un ambiente sentito ostile, in fondo il vero protagonista del libro; perché, se è vero che «il Carso aveva anch’esso il suo verde», questo era «proprio smorto»; e «putride» le acque, e «venefica» l’aria. Di Puccini la storia letteraria ricorda soprattutto il Soldato Cola (varie edizioni, dal 1927 al ’35), un libro che, senza punte polemiche né lampi espressionistici, non dispiacque al regime. Lo scrittore non è infatti una coscienza inquieta e il suo stile ne risente: insieme letterario e giornalistico, trova il proprio limite in un innato e accomodante senso di equilibrio, che porta la pagina fin sul terreno della piacevolezza. Quella «lingua letteraria» che qui, come ha spiegato Silvio Ramat nell’empatica prefazione, « gioca le carte migliori», impedisce a Puccini di raccontare la guerra orribile, la guerra crudele, la guerra assurda, la «cosa turpe» come scrive Svevo vagheggiando la pace. Bonari i generali (che con la loro incompetenza preparano Caporetto), paterni i tenentini che guidano, per il Re e per la Patria, la truppa al massacro, ingenuo e istintivamente pronto al sacrificio il popolo dei fanti, cui basta il vino e il tabacco per sfidare la morte, alieno da complicati ragionamenti o da tentazioni sovversive (a meno che non gli manchi la cicca …), perché ha capito, per secolare assuefazione alla vita gregaria, che «la rassegnazione è una grande amica di chi combatte» (Puccini, Davanti a Trieste). Nasce anche da qui il mito regressivo e disimpegnato di una guerra fatta … perché si doveva fare, in fondo un cameratesco sport estremo, il «trip for sportsmen» come si legge su uno sciagurato manifesto inglese del ’14; guerra raccontata, si cede la parola a Mario Isnenghi, con spirito «di subordinazione remissiva […] e in una elusione pressoché totale dei moventi generali», complementare alle sfilati di labari, alle cascate di medaglie, alle tavole di Achille Beltrame, ai bianchi sacrari di marmo.