Dindo e i solisti di Pavia

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Con la rassegna “Cromatismi 2.0” al Teatro Miela di Trieste Chamber music inaugura il suo 2023 musicale

di Luigi Cataldi

 

Con il bel concerto di Enrico Dindo e I Solisti di Pavia al Teatro Miela di Trieste è stata inaugurata il 18 gennaio la Stagione 2023 di Chamber music (“Cromatismi 2.0”). Un concerto di soli archi con violoncello a far da guida. Dindo (violoncellista, premio Rostropovich 1997, dalla lunga e prestigiosa carriera a fianco di direttori come Muti, Gatti, Chailly e Noseda, di compositori come Castagnoli, Boccadoro, Galante e Molinelli, e con all’attivo una ricca discografia che spazia dalle Cello-Suites di Johann Sebastian Bach ai Concerti per violoncello di Shostakovich), infatti, dei Solisti di Pavia (orchestra di consolidata reputazione internazionale, sebbene radicata nella città di nascita della quale anima la vita musicale con meritorie attività come “I cortili in musica” e “Bach in città”) è stato il fondatore nel 2001 ed è tuttora il direttore.

Il rapporto fra creatore e creatura, cioè fra direttore e orchestrali, mi pare possa essere spiegato con ciò che si è visto e sentito al primo bis fatto a Trieste, l’«allegro risoluto» dell’ultima composizione eseguita, la Serenata per archi in do maggiore Op. 14 n. 2 di Robert Fuchs. Dopo aver dato l’attacco, Dindo ha abbandonato il podio e si è messo in disparte ad ascoltare come fosse uno del pubblico. Peraltro anche durante il resto del concerto, quando era impegnato come solista e non poteva dedicarsi solo alla direzione, i cenni per la sincronia erano spesso dati dal primo violino anziché da lui. Una dimostrazione dell’inutilità del direttore? Semmai, al contrario, ciò dimostra che egli è guida riconosciuta e tutt’altro che inutile e che il rapporto con l’orchestra è cordiale (“di cuore” in senso letterale a giudicare dalla perfetta intesa fra i musicisti). L’esecuzione, messa a punto nelle prove, prende vita però di fronte al pubblico, con il quale sebbene distante, il direttore, insieme all’orchestra, interagiva. Questo contatto facile e diretto fra esecutori e ascoltatori, la chiarezza dell’esecuzione e la limpida sonorità dell’orchestra hanno reso un piacere ascoltare il concerto.

Un piacere che non è venuto meno neppure nel momento più impegnativo, cioè con la Louange à l’éternité de Jésus (Lode all’eternità di Gesù) tratta dal Quatuor pour la fin du temps di Olivier Messiaen, opera composta nel 1940 nel campo di prigionia tedesco di Görlitz, all’epoca appartenente alla Slesia polacca ed oggi in Sassonia. Messiaen, richiamato l’anno precedente alle armi, vi fu rinchiuso insieme al violinista Jean Le Boulaire, al clarinettista Henri Akoka e al violoncellista Etienne Pasquier. Per loro e per tutti gli altri detenuti scrisse questo quartetto e, insieme a loro, con un piano sgangherato, lo eseguì il 15 gennaio 1941. «Mai ho avuto ascoltatori più attenti e comprensivi», disse. Una composizione complicata, un pubblico digiuno di musica eppure capace di comprendere. Un esempio del grande valore civile della musica. Si stampava un mensile in quel campo, «Le Lumignon», sul quale si parlò del concerto: «Questa musica ci riscatta tutti: dalla prigionia, dalla mediocrità. È un riscatto di noi stessi. […] La cosa fondamentale, nell’ascoltare questa musica, non è ritornare dove siamo, ma a ciò che siamo». La composizione è ispirata al decimo capitolo dell’Apocalisse di Giovanni, in cui l’angelo venuto dal cielo annuncia: «Non ci sarà più Tempo; ma il giorno della tromba del settimo angelo il mistero di Dio si compirà». Messiaen era uomo di profonda e sincera fede. Per lui «la fine del tempo» (anche di quello musicale) è l’inizio dell’eternità, dunque non alle tragedie della guerra, ma alla redenzione dalle miserie umane egli pensava di dar voce con questo quartetto. Atto che si concretizza in particolare con la Louange à l’éternité de Jésus, lentissima melodia del violoncello accompagnata dagli accordi del piano (degli archi nella trascrizione di Dindo), che dilata a dismisura il tempo e lo riconduce a un flusso che si avvolge su se stesso. «Qui Gesù», spiega il compositore, «è considerato come Verbo. Una grande frase, infinitamente lenta, del violoncello, magnifica, con amore e riverenza, l’eternità di questo Verbo potente e dolce, i cui anni non si esauriranno mai. La melodia si dispiega maestosamente in una sorta di lontananza tenera e sovrana. In principio era il Verbo, e il Verbo era in Dio, e il Verbo era Dio».

Alla mistica serenità di Messiaen gli esecutori hanno aggiunto la levigatezza degli archi. Con questo suono, a tratti esilissimo e a tratti poderoso, essi hanno affrontato il percorso dell’intero concerto, racchiuso in un cruciale arco temporale, 1874-1948, in cui si sgretola l’armonia tonale e si affermano le più varie forme ad essa alternative. Eppure, sebbene recando i segni di questo travagliato periodo, i brani scelti documentano, non la morte, ma la persistente vitalità della tonalità (seppure dilatata sino ai suoi confini estremi), delle forme (Concerto, Romanza, Serenata) e di un organico (l’orchestra d’archi da camera) tradizionali. Il primo tratto di strada è stato riservato alla musica ebraica, con Kol Nidrei di Max Bruch (1880). Un «adagio ma non troppo» su melodie ebraiche, bipartito: malinconica e in tonalità di re minore la prima parte, cantabile in re maggiore la seconda. Nella trascrizione di Dindo la mancanza dell’arpa (nell’originale in rilievo nella seconda parte) e dei fiati, attenua i contrasti e dà un tono più sereno all’intera composizione. Una sonorità corposa, un’espressività che tende a2 levigare le asprezze e a dar rilievo alle parti liriche, hanno caratterizzato anche le altre esecuzioni: il Concertino per archi e violoncello op. 43bis che Mieczysław Weinberg (ebreo polacco, rifugiatosi in URSS per sfuggire allo sterminio nazista) compose nel 1948, ma tenne in un cassetto per timore delle persecuzioni dovute alla dottrina Ždanov, allora imperante, contro l’arte non allineata al partito (è stato pubblicato postumo solo nel 2017); la Romanza per violoncello e archi di Richard Strauss (1883); la già citata Serenata di Fuchs.

Spontanei e meritatissimi gli applausi del pubblico.

 

 

 

Enrico Dindo e

I Solisti di Pavia