Macchine da cucire

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di Giuseppe O. Longo

 

Arrivammo a Trieste nel 1955 e con i miei genitori e mio fratello abitammo per qualche mese in un paio di stanze in subaffitto nell’appartamentino della signora Enzi, che si era riservata una cameretta dove entravano a malapena un armadio, un lettuccio e due seggiole, ma anche, su un tavolino, una vecchia macchina da cucire Singer, nera e pesante, con il lucido volano a  manovella, una macchina che ricordava vagamente un cavallo al pascolo o una capra, fissata a una base di solido legno rossiccio, che spesso nei pomeriggi la signora faceva andare veloce, passando tele e mussoline sotto il premistoffa e quel cìcchete ciàcchete alato, come di lontane gualchiere minuscole e argentine, mi ricordava un’altra macchina da cucire, la Necchi che aveva vinto in gioventù mia mamma, l’unico premio che abbia mai vinto, diceva con orgoglio e amarezza, il primo premio di non so quale lotteria parrocchiale, a pedale, questa Necchi, con uno snodo di biella e manovella innestato su una grande ruota dai raggi ricurvi, come s’usava allora in tutte le macchine, quasi per dar più slancio alla rotazione, il tutto incastellato su un traliccio di ghisa sorreggente il piano della macchina vera e propria, arricchiti poi la testa e il collo della capra da accessori di lucido acciaio, piastre, leve, perni, dischetti, molle, tendifili, barre, viti, e dal filarello automatico a innesto sul volano con la rotellina gommata per il trascinamento e l’eccentrico a cuoricino, e tutto questo vivo meccanismo sprigionava un sentore di metallo e di olio, due gocce date ogni tanto infilando negli appositi forellini il lungo becco dell’elegante oliatore di zinco, un olio bianco, filante, il cui insipido aroma nativo, reagendo e mescolandosi con gli altri odori esalati dalle varie parti e dai complicati rotismi interni e con quelli pungenti o delicati delle stoffe, si trasformava (sfinendosi e consumandosi l’olio per agevolare il moto) in quell’aroma misterioso, indefinibile, che riconoscerei ancora tra mille, l’odore, appunto delle macchine da cucire.

Ma non tutte le macchine erano così innocue e mansuete come la Singer o la Necchi, lo capii anni dopo, studente d’ingegneria, quando misi le mani sui motori elettrici, macchine pericolose quant’altre mai, che per un’imprudenza mia o per un loro scarto casuale, avrebbero potuto fulminarmi con indifferenza appunto macchinica, tanto che cominciai a nutrire una morbosa fantasia, mi immaginavo di morire, nel laboratorio delle macchine elettriche dell’università, colpito da una scarica a diecimila volt sprigionatasi, per un difetto nell’avvolgimento, da un motore asincrono costruito ad Amburgo o a Brema dalla Siemens und Halske (l’unico motore tedesco, tra i tanti costruiti nelle Officine Elettromeccaniche Triestine o negli stabilimenti monfalconesi dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico o a Milano dalla Marelli e, un paio, dalla General Electric di Fort Wayne, nell’Indiana, costruito, il grosso motore tedesco, nel 1941, lo stesso anno in cui, in altra parte d’Europa, venivo al mondo io), un difetto d’isolamento che fin lì non si era manifestato, ma che per fatalità aveva prodotto i suoi inesorabili effetti proprio nel momento in cui io allungavo la mano per compiere una comunissima manovra d’inserzione, e dopo un istante eccomi steso a terra folgorato, forse carbonizzato, e via a dettarmi un breve e malinconico epitaffio, quello che si dice il fato, due serie casuali di eventi che s’incontrano, il destino mi aveva portato a Trieste e poi a iscrivermi a quella facoltà e poi a frequentare quel laboratorio, mentre il motore, forse un residuato bellico, giunto fin lì per chissà quale giuoco delle circostanze (e per giunta, sottolineavo nel necrologio, mio coetaneo: come si può ammazzare un coetaneo, che è quasi un fratello!), era stato installato su quel preciso basamento e nello stesso istante in cui io allungavo la mano, come tanti prima di me avevano fatto impunemente, ecc. ecc., insomma, a parte l’epitaffio, molto meglio le domestiche e donnesche macchine da cucire.