La detective delle muse

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Maria Grazia Ciani con la raccolta di saggi Il canto delle muse ripercorre le mille «variazioni» sul tema di grandi classici, riannodando i fili che legano presente e passato

di Francesco Carbone

 

 

Il mondo – in quanto assolutamente,

irreparabilmente profano – è Dio.

(Giorgio Agamben, La comunità che viene)

 

 

«Ogni studioso, qualsiasi sia la sua formazione, procede come un detective» è la prima frase della Premessa che Maria Grazia Ciani ha scritto per la sua recente raccolta di saggi Il canto delle muse (Marsilio 2022). La metafora del detective sarà la nostra Arianna nel labirinto – la presenza del mito e delle muse nell’arte del Novecento – di cui l’autrice ci offre alcuni scorci. Ciani è un’importante classicista; ha insegnato all’università di Padova Storia della tradizione classica, ha tradotto – tra l’altro – l’Iliade e l’Odissea in una prosa fluente eppure miracolosamente non attuale, e l’inesauribile Biblioteca di Apollodoro per la prestigiosa Fondazione Lorenzo Valla (disponibile anche negli Oscar Mondadori).

Esiste, nel nostro tempo sincopato e sonnambulo, qualcosa che possiamo chiamare muse? Umberto Galimberti ripete spesso un ragionamento che ci può servire: quando Nietzsche, nell’aforisma 125 della Gaia scienza (1882) fa annunciare dal folle che Dio è morto, non ci dice semplicemente che ciò che abbiamo chiamato dio è defunto, ma che è morta la forza di ciò che abbiamo chiamato con fede dio: il nostro mondo non può essere compreso mettendo da parte la tecnica e il denaro, mentre – togliendo dio – i suoi meccanismi essenziali funzionano ugualmente, intatti e indifferenti alla scomparsa non solo di dio ma del sacro.

E Ciani scrive subito che le muse «non cantano più». Chi è stato l’ultimo dei nostri scrittori che ha invocato seriamente le muse? Forse Foscolo: lo svanire delle muse coincide con la sparizione di Dio?

Quando un Dio muore – quando muore il nostro crederci –, per un certo tempo gli uomini non se ne accorgono. La rivelazione arriva forse solo quando non potrà essere neppure traumatica: quando gli uomini di fatto stanno già da tempo vivendo senza quel Dio. Viene in mente Plutarco, che nel Tramonto degli oracoli (in Dialoghi delfici, Adelphi 1983), racconta mesto di quando la terra, che una volta «straripava di voci oracolari», ha perso quelle rivelazioni che aprivano al divino e si è fatta così più piccola. Forse muse e oracoli continuano a bisbigliare e siamo noi che abbiamo perso la lingua comune, e con lei lo stesso strumento che ci permetteva di percepirne la voce.  Le muse inquietanti sono una delle opere più conosciute di Giorgio De Chirico (1919), e sono due manichini, in un paesaggio urbano deserto.

Ciani dice dunque che le muse «non cantano più»; ma poi continua così: «eppure sono loro le depositarie dei canti perduti, sono loro che vegliano sulle opere d’arte e giocano a nascondersi, all’insaputa degli artisti, per farsi poi scoprire dall’occhio di chi guarda».

Paradossale è dunque la condizione sia delle muse che la nostra: le muse si danno a noi moderni in quell’«eppure» posto subito dopo l’ammissione del loro silenzio. Le nove figlie di Zeus e di Mnemosine (la dea della memoria) sono allora potenze numinose che continuano a vivere ma solo come assenza? Agiscono come un ricordo latente, inconscio, come un rimosso che ironicamente rilascia segni benigni – direbbe Freud – nella psicopatologia quotidiana? Nessun artista può più evocarle. Non ci sono più le parole per questo (viene da dire perché la sola musa è il mercato). Eppure le muse disseminano di fantasmi l’aria.

A un certo punto, Ciani cita una bella frase di Giorgio Manganelli sul significato dei silenzi nella musica: «non sono un’interruzione o uno iato, né uno spazio: sono una nota particolare il cui grado è caratterizzato dal manifestarsi come assenza». Le muse nel nostro tempo sono come questi silenzi? Ci vogliono occhi e orecchie da detective per percepirne le ombre e gli echi fuggenti, per individuare – scrive sempre Ciani – «il punto dove l’antico preme sul moderno, dove le muse sembrano cantare».

 

Sempre nella premessa, Ciani ci dà un altro avvertimento paradossale: ci dice che ha cercato «di individuare la ricaduta di certe tematiche in autori – scrittori, artisti, musicisti – che appaiono molto lontani, e non solo dal punto di vista temporale, dall’antichità». Il punto di riferimento è stato Aby Warburg, e «il suo splendido e geniale Atlante».

L’incompiuto Atlante di Warburg (che si può vedere qui: http://www.engramma.it/eOS/core/frontend/eos_atlas_index.php), è una raccolta di un migliaio di immagini, assemblate in modo da rendere evidente la migrazione di alcuni motivi ancestrali dall’antichità soprattutto fino al Rinascimento. Anche nei saggi di Ciani c’è la stessa capacità di riconoscere nel presente il ritorno di figure antichissime, e, nelle arti figurative, di quelle che proprio Warburg aveva chiamato le Pathosformeln: neologismo che è stato tradotto “formule patetiche” o “formule di pathos” per intendere quelle immagini archetipiche che ritornano in contesti differenti attraverso i secoli della storia dell’arte.

Le Pathosformeln non necessariamente riemergono attraverso l’opera di un artista consapevole di agire da medium tra il passato e il presente. Un caso che Ciani racconta è quello del “braccio della morte” – il braccio di una persona morta «abbandonato nel vuoto» –. Ciani lo ritrova, a proposito di un episodio dell’Iliade, nell’illustrazione che il neoclassico John Flaxman aveva realizzato della morte di Sarpedone, poi “rifatta” da Le Corbusier negli anni ’50 del Novecento, per ridiscendere alla fine di nuovo nel primo Ottocento di Flaxman, ma per portarci nel suo lato oscuro e fecondissimo, romantico, irrazionale e notturno, con la meravigliosa serie degli Incubi di Johann Heinrich Füssli: anche lì lo stesso “braccio della morte” lasciato a pendere verso la terra senza più tensione.

Potrebbe essere questo svanire e riemergere di forme archetipe il modo in cui ancora si dà oggi il canto delle muse.

Allo stesso tempo Ciani, poche righe dopo aver dichiarato il suo debito per il geniale inventore dell’iconologia, scrive che «siamo ben lontani dal metodo di Warburg», e questo proprio perché «le muse non cantano più».

Sarebbe quello proposto dall’Atlante di Warburg l’esito ottimistico di uno studioso che ancora credeva che fosse possibile ricostruire, certo da detective, il filum che scorre dal passato al presente? E che fa riconoscere – per citare l’esempio più celebre – la presenza della figura della Ninfa luminosamente in tutto lo svolgersi della storia dell’arte?

Poiché le muse non cantano più, quel filum andrà inteso come spezzato in chissà quanti punti: qualcosa di cui possiamo ritrovare solo frammenti, come era per Montale la storia che «non si snoda / come una catena / di anelli ininterrotta»?

Si potrà allora – come fa Ciani in questo libro – procedere solo per saggi, per lacerti e, nel senso che ha in musica, per improvvisi? Walter Benjamin è stato il primo ad avere quest’idea della storia e dei suoi resti – per lo più inconsci, dormienti ma messianici – nel presente.

Il libro della Ciani è dunque il resoconto di una serie di indagini della presenza-assenza delle muse nelle arti del XX secolo: soprattutto nella musica. Nel sottotitolo del libro, sono chiamate variazioni. E anche questo è un segno. Variazioni nella musica sono le riscritture di un tema che diventa il canovaccio su cui realizzare modificazioni armoniche, ritmiche, melodiche, timbriche, ecc. che però fanno sentire sempre, appunto, di essere variazioni di quel tema.

La detective Ciani cerca – e trova – il canto delle muse in alcuni disegni del tardo Le Corbusier sull’Iliade in chiaro controcanto polemico con le immagini neoclassiche di Flaxman, nel bellissimo Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi, nella statua – non proprio stupenda ridiscendere di Ulisse di Ugo Attardi che si trova al Battery Park a New York, nelle fotografie di Mimmo Jodice. Segue, e sono forse le pagine più interessanti, una serie di brevi saggi sulla musica del Novecento: Ciani ripercorre il mito di Prometeo da Beethoven a quella Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale cercata da Wagner) che è il Prometeo. Tragedia dell’ascolto di Luigi Nono. Ci racconta come nei concerti per oboe di Maderna riviva l’aulos greco (lo strumento a fiato dionisiaco rispetto all’apollinea cetra), l’ossessione di Ferruccio Busoni per il Faust di Goethe, quella di Dallapiccola per Ulisse, e il Mosè e Aronne di Schönberg.

A leggerlo spesso ci si incanta.

Viene da dire che questo è uno di quei libri che si scrivono dopo i libri: quando il sacco delle conoscenze è pressoché colmo, quando al galateo accademico e alla “cultura” è stato dato quanto dovuto, e resta la libertà di guardare il mondo giocando, con curiosità e leggerezza, come faceva il vecchio Picasso con tutte le forme. È anche questo il vero fiorire. Malgrado tutto, al saggio detective il futuro non appare nemico. Perché il mito «è trasgressione e ricerca senza fine».

 

Maria Grazia Ciani

Il canto delle muse

Variazioni sull’arte contemporanea

Marsilio, 2022

  1. 160, euro 16,00