Klavdij Palcic al Kulturni Dom

| | |

Tensione creativa e potenza espressiva nell’opera dell’autore triestino

di Joško Vetrih

 

Per gentile  concessione dell’autore e del Kulturni dom di Gorizia, pubblichiamo di seguito la presentazione della mostra allestita in occasione degli ottant’anni di Palčič

 

La mostra che coinvolge in questo periodo gli spazi espositivi del Kulturni dom di Gorizia rende omaggio, in occasione del suo ottantesimo compleanno, a un pittore che possiamo considerare a ragione l’erede più significativo della grande stagione della pittura slovena a Trieste nella prima metà del ventesimo scolo. Una stagione che ha avuto tra i suoi rappresentanti artisti come Černigoj, Spacal, Bambič, Cesar, Sirk, Lukežič, Hlavaty, Grom.

Aderendo negli anni ’60 al gruppo di pittori triestini d’avanguardia “Raccordo sei – Arte viva”, Klavdij Palčič è stato, dopo Černigoj e Spacal, anche uno dei pochi pittori sloveni operanti nella nostra regione, che hanno saputo instaurare un rapporto fattivo e spassionato con l’ambiente artistico e culturale italiano di Trieste.

Fin dagli inizi, senza lasciarsi fuorviare da ideologie, ragioni etiche e sociali, Palčič è riuscito a costruirsi un linguaggio artistico ben riconoscibile, originale ed espressivo, di cui si è servito con grande coerenza durante tutta la sua lunga attività di pittore, grafico, scultore, illustratore, scenografo, costumista teatrale. Questo linguaggio, che coniuga abilità tecnica e spontaneità espressiva, analisi psicologica e invenzione fantastica, gli ha consentito di muoversi felicemente fra figuratività e astrazione, di destreggiarsi fra tecniche e materiali impostando un discorso multiforme, in cui i trapassi dalla realtà alla metafora si sciolgono in opere di grande modernità in grado di visualizzare situazioni, avvenimenti, pensieri ed emozioni che appartengono all’immaginario non solo della nostra epoca.

Ho conosciuto Klavdij Palčič, allora poco più che ventenne, durante una ex tempore che si svolse a Conconello nei primi anni ‘60. Lo ricordo ancora intento a rifinire la propria opera con ago, corda, cesoie, brandelli di tela, pezzi di legno, ritagli di plastica e di lamierino. Ricordo che rimasi fortemente impressionato dalla determinazione e dalla cura che egli metteva nell’esecuzione di un lavoro per cui, oltre ad una innata propensione alla sperimentazione, erano richieste anche buone capacità progettuali e una indefettibile abilità manuale nella manipolazione dei materiali usati. Queste mie impressioni trovarono conferma qualche anno dopo, quando potei assistere alla rappresentazione di Aspettando Godot di Samuel Beckett, allestita nel febbraio del 1966 al teatro sloveno di Trieste, per la quale Palčič provvide a progettare e a realizzare (servendosi dei materiali usati nelle sue opere pittoriche) un apparato scenografico in grado di rendere perfettamente l’atmosfera di sospensione e di angosciosa attesa che caratterizza il lavoro del drammaturgo irlandese.

La predilezione che aveva accordato nelle opere giovanili all’uso acconcio di materiali eterogenei, cuciti, incollati o saldati insieme a formare superfici pittoriche o scenografie teatrali, ritorna a farsi sentire nei suoi lavori degli anni seguenti. Anche quando non li usa, questi materiali sembrano essere presenti nei fogli grafici, negli arazzi e nei dipinti a tecnica mista, nei quali i colori terrosi, spenti, appaiono scossi qua e là da sussulti improvvisi, da tinte più solari, mediterranee, percorsi da sottili trame lineari che ragnano le superfici abbozzando forme enigmatiche, spesso traboccanti oltre i limiti consueti del riquadro compositivo. Ne risulta un’impressione di tattilità, un perentorio richiamo alla corposa plasticità delle superfici naturali con tutte le loro rugosità, fenditure ed espansioni volumetriche, che preludono alle sue successive ricerche nel campo della scultura. Ma quello di Palčič non è solo un viaggio all’interno della materia nel tentativo di esplorare, ripensare e risistemare la realtà visibile secondo una propria visione del mondo, costringendola di volta in volta in forme simboliche, figure antropomorfe, mitiche. È anche una discesa all’interno dell’uomo, alla scoperta dei delicati equilibri su cui si reggono i nostri difficili rapporti con “l’altro” e con l’ambiente che ci circonda, rapporti minati continuamente dall’ansia e dall’insofferenza, dalla ricerca di uno sfogo alle nostre inquietudini, paure, slanci che scuotono o illuminano per brevi istanti la nostra vita di ogni giorno.

Ed è così che dalle quasi monocrome composizioni iniziali, dominate da tonalità spente e terrose, dove l’attenzione dell’autore appariva concentrata soprattutto sugli interventi materici che si venivano strutturando sulla superficie pittorica in forme inquietanti, egli passa ai dipinti nei quali si affaccia quella figura umana che l’artista pone da allora in poi al centro delle proprie preoccupazioni contenutistiche e formali. Essa appare sempre in posizione centrale, come sospesa sopra la superficie anodina dello sfondo, ingaggiata con tutte le forze nel conflitto che la oppone alla materia primordiale dalla quale è appena riuscita a staccarsi e dalla quale appare ancora insidiata. Comincia allora a palesarsi pienamente la sua abilità di eccellente disegnatore, di cui si serve per fissare sulla carta idee e stati d’animo. Veicolato da pennellate decise e veloci comincia ad emergere prepotentemente anche il colore: per lo più in brevi sprazzi dalle tonalità accese e luminose, destinate a restituire alla composizione l’equilibrio venuto a mancare nel passaggio dalle semplici forme materiche alla più complessa organizzazione della superficie pittorica destinata ad ospitare una composizione incentrata soprattutto sulla figura umana. Sarebbe stato facile a questo punto cedere alla tentazione di una pittura mimetica e affabulativa. Ma ciò non si accordava con il carattere di Palčič, che non intendeva stemperare la pregnanza del proprio messaggio con interventi narrativi ed effetti meramente illusionistici.

Anche se la natura con tutti i suoi elementi, uomo compreso, costituisce pur sempre l’oggetto primario della sua pittura, egli non dipinge necessariamente “secondo” natura: i suoi dipinti sono dei semplici “campi” appositamente preordinati ad ospitare l’azione pittorica. Egli non illustra, non narra nel senso convenzionale della parola e neppure riflette sterilmente sulla pittura e sui suoi problemi: le sue opere si pongono come oggetti in sé finiti, nelle quali tutti gli elementi stilistici, cromatici e contenutistici concorrono a formare una composizione perfettamente organizzata, adatta a supportare il messaggio poetico attraverso un linguaggio pittorico, originale e autonomo in grado di dare forma ai valori primigeni che, sotto le apparenze della realtà visibile, presiedono al miracolo della creazione. Gli elementi paesaggistici appena accennati, gli oggetti della realtà quotidiana sommariamente delineati, le atmosfere fantastiche e le reminiscenze mitologiche in cui si concentrano le metafore della vita e la stessa figura umana che si pone al centro di tutto ciò, appaiono nient’altro che semplici veicoli destinati a trasmettere senza sbavature e distrazioni il messaggio fondamentale che può assumere di volta in volta l’aspetto di un conflitto senza fine tra l’uomo e tutto ciò che malevolmente lo insidia oppure di rassegnata accettazione di tutto ciò che più o meno felicemente lo accompagna durante la sua travagliata avventura terrena.

Nella pittura, come nella scultura, il linguaggio di Palčič assume spesso i caratteri monumentali propri dell’iconografia mitologica e religiosa così come la percepiamo attraverso l’interpretazione volutamente enfatizzata e magniloquente, fatta di composizioni movimentate da arditi scorci prospettici, che ne hanno dato gli artisti di epoca manierista e barocca. Ciò appare particolarmente evidente nei lavori da lui realizzati dopo la stagione materica e informale, nelle opere dedicate alle figure bibliche (come la Caduta degli angeli), ai temi e ai personaggi della mitologia (come Icaro, Sibilla, Laocoonte) e dell’epica popolare, come attesta il grande quadro intitolato Lepa Vida. Nel caso di Palčič l’aspetto imponente e monumentale delle composizioni viene però spesso affievolito da un profluvio di linee curve, fluttuanti e sfrangiate, e da indovinati interventi compositivi e cromatici che ne stemperano in qualche modo l’imponente impatto iconografico, a tutto vantaggio di una visione più leggibile e disincantata.

L’autore imposta il problema del conflitto tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda, facendogli assumere le caratteristiche di un’indagine omnidirezionale rivolta a evidenziare le relazioni che intercorrono tra uomo e natura, tra vita e materia, tra essere e non essere, tra finito e non finito, tra contenuto e forma, tra rappresentazione realistica e astrazione. E l’indagine lo porta a pensare che nulla è perfettamente finito, integro e puro nella nostra vita e nella realtà di ogni giorno, dove ogni contaminazione è non solo possibile ma addirittura necessaria per consentire la nostra sopravvivenza. Tutto ciò che accade intorno a noi deve destare il nostro interesse, niente deve essere trascurato in un mondo in cui siamo soltanto degli ingranaggi presi in mezzo ad altri ingranaggi. E quando la tensione si fa troppo alta, Palčič si dimostra a volte anche capace di non prendersi troppo sul serio: servendosi delle sue capacità di raffinato disegnatore e colorista egli provvede infatti a ridimensionare, con piccoli dettagli e interventi carichi di sottile ironia, l’aspetto monumentale dei suoi lavori e a “sgonfiare” l’atmosfera di intensa drammaticità che li circonda, riportando così “leggerezza” ed equilibrio nella propria opera.

 

 

Minotaver – Minotauro

Tecnica mista

su tela, 2000