Sull’antica Pescheria, ancora

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di Luca Bellocchi

 

 

Diventa ormai prassi consolidata che le mie righe su questa rivista giungano in risposta ai pensieri, spesso illuminati, di Roberto Curci.

Stavolta ci tocca dibattere sulla nostra Pescheria, il Mercato del Pesce diventato spazio espositivo privo di un’idea, la nostra Gare d’Orsay senza impressionismo, la nostra Santa Maria del Guato senza… brodetto!

A mio modesto parere alcune mostre buone ci sono state, ma troppo poco, sullo sfondo di una cronica assenza di progettazione; quella progettazione che dovrebbe invece portare tale luogo, difficile da gestire ma dal grande fascino, a diventare il contenitore principe di un’idea forte, chiara, riconoscibile, illuminata, e, perché no anche (ma dopo) turistica.

La proposta di Curci gli rende onore sul fronte del coraggio, dell’azzardo e della dimostrazione di solida preparazione in un campo non così noto come la pittura ungherese dell’Ottocento e del Novecento.

Di azzardo in azzardo allora perché non sfruttare anche il fatto che Trieste, Capitale europea della Scienza 2020, avrà una corsia preferenziale per (ri)legarsi alla gemella Fiume, Capitale europea della Cultura nello stesso 2020, presentando, prima inter pares, una selezione di pittori e scultori fiumani quali Romolo Venucci e Clemente Tafuri, Edoardo Trevese e Ugo Terzoli?

Riempiendo poi gli spazi immensi verticali con riproduzioni fotografiche delle opere scultoree non trasportabili in situ equivarrebbe a ricreare l’urbanistica della città del Novecento attraverso i gesti, i volti e le idee dei protagonisti.

E inaugurando così un tema ovvio e scontato per questi luoghi che è quello del confronto e della ricostruzione della storia possibile anche attraverso le migrazioni artistiche proprie di queste terre di confine da sempre puzzle di lingue e religioni.

Un prodotto nostrano che, da una parte, rilancerebbe la collaborazione con i musei croati e che inaugurerebbe, dall’altra, una serie infinita di sequels mirati a ridefinire il concetto di arte nel Quarnaro e sulla costa dalmata nel Novecento.

Senza dimenticare che, in ossequio alla Serenissima, madre matrigna che dominò questo mare in lungo e in largo, anche una retrospettiva sui pittori veneti del Cinquecento e del Settecento attivi in Dalmazia non stonerebbe. Anzi, si potrebbe riaccendere l’interesse verso gli effetti avuti dai grandi sugli artisti dalmati meno noti e punterebbe l’attenzione sui linguaggi artistici del passato che hanno definito, in seguito, il concetto di arte nel Novecento.

Oppure inaugurare un ciclo di riflessioni, incontri e mostre sul concetto di Secessione, partendo dalla “piccola capitale” sino a giungere a Vienna, sviscerando contatti e suggerimenti sulla scia del Giudizio di Paride di Max Klinger, visto dai triestini di inizio Novecento nell’atelier dell’architetto e collezionista Alexander von Hummel, sull’onda del selvaggio e onirico Jugendstil di Vito Timmel o, perché no, sulla falsa riga della statuaria funebre di inizio Novecento, lucido esempio di committenza borghese volta a celebrare le storie e i ricordi delle famiglie di imprenditori più note nei centri dell‘impero.

Idee in libertà che, per dirla con l’amico di penna Curci, appagherebbero – forse – le casse, di sicuro gli animi dei visitatori.

 

 

Romolo Venucci

Porto di Fiume

olio su tela 1974