Dante negli inferni di Hitler

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La prima cantica della Commedia può esser letta come una profetica gigantesca metafora

un ambiente in cui tutti i valori stanno di fronte al ghigno del forno sempre acceso

odore di mare: dolci cose ferocemente lontane

in quella casa del diavolo l’interesse per la Commedia fu tale che fui invitato a tenervi un corso su Dante.

di Walter Chiereghin

 

La prima cantica della Commedia dantesca può esser letta, da coloro che si sono accostati all’alta opera di poesia dopo la fine del secondo conflitto mondiale, come una profetica gigantesca metafora di una delle realtà più inquietanti e raccapriccianti dell’immane follia di quella guerra: l’epica – e l’orrore – dei campi di sterminio, dove le masse dei reclusi possono essere assimilate sin troppo facilmente a quelle dei dannati e, con altrettanto facile accostamento logico, la violenza volgare ed efferata dei kapò a quella dei diavoli, i supplizi dei peccatori a quelli degli innocenti torturati.

Una delle più crude e “fotografiche” rappresentazioni letterarie di un lager nazista è quella che per noi ha scritto Boris Pahor nel suo capolavoro, Necropoli. In esso il reduce racconta con acuminata freddezza storia e topografia del campo di Natzweiler-Struthof, dove lo scrittore ha “scontato” buona parte del suo periodo di deportazione.

Il libro è stato pubblicato in sloveno dodici anni dopo la liberazione e non è – se non indirettamente – una cronaca della deportazione, narrando invece di una visita compiuta appunto negli anni Sessanta al lager divenuto monumento nazionale francese, conservando sostanzialmente tutto l’aspetto di quand’era operativo. L’io narrante, con ogni evidenza lo stesso Pahor, compie il breve percorso come un pellegrinaggio (il titolo francese del suo libro è Pèlerin parmi les ombres / Pellegrino tra le ombre), a pochi passi da un gruppo di turisti, attingendo dalla memoria gli atroci ricordi della sua detenzione in quel luogo. La descrizione che egli fa del campo, poggiato sul versante di una collina, rivela una trasparente somiglianza con l’Inferno di Dante, a iniziare dal cancello d’ingresso, collocato nella parte più alta del campo e sormontato dalla scritta «Arbeit macht frei», corrispettivo lugubre e ingannevole dell’iscrizione “di colore oscuro” sopra il portale che immette nella città dolente del Poeta. Anche la stessa forma del lager ha analogie con la conformazione che Dante immaginò per il suo inferno: le baracche sono infatti disposte su un terreno in forte pendenza, organizzato quindi in terrazzamenti, gradoni (ripiani li chiama la traduzione di Ezio Martin, Pahor invece adopera sempre, nel parlarne, il termine dialettale di pàstini), corrispettivo dei gironi danteschi. Al punto più basso di essi, la Giudecca, riservato da Dante ai traditori dei benefattori e al mostruoso gigantismo di Lucifero, corrisponde nel campo di sterminio dei Vosgi, un ultimo terrazzamento che ospita le ultime due baracche, una per la prigione (prigione? Cos’è allora il resto del campo?), l’altra riservata al forno crematorio, vero perno di tutta quell’organizzazione dello sterminio, che fa dell’intero lager, come osserva il reduce, «un ambiente in cui tutti i valori stanno di fronte al ghigno del forno sempre acceso».

Un libro in cui la presenza di Dante è esplicitamente richiamata nel testo è il capolavoro di Primo Levi Se questo è un uomo. Una presenza che già si annuncia nei versi che sono posti in esergo al libro, dove un endecasillabo, «considerate se questo è un uomo», che tra l’altro ingloba in sé il titolo dell’opera, è il calco di un altro celeberrimo endecasillabo: «considerate la vostra semenza». È il ventiseiesimo canto dell’Inferno: il canto di Ulisse ed è pure uno dei versi più celebri dell’intero poema.

Quell’alta pagina di poesia ritorna, quasi integra, all’interno dell’opera di Levi, costituendone anzi uno dei punti letterariamente più elevati. Il passo è notissimo: Levi è scelto dal Jean, il Pikolo, tuttofare della squadra per un lavoro ambito: trasportare il miserabile rancio dalle cucine al luogo dove lavorano gli altri deportati e ricambia, su richiesta dell’altro, col tentativo di impartigli una prima lezione d’italiano. Nessun sussidio didattico a disposizione che non sia la memoria, anch’essa un poco difettosa, perché Levi è un chimico, per cui deve attingere a quanto ricorda di Dante dagli anni del liceo classico.

«… Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto.

… Chi è Dante. Che cosa è la commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia.

Jean è attentissimo, lento e accurato».

Con questa breve convulsa introduzione, si arriva finalmente al testo, attinto da una memoria malsicura: «Lo maggior corno della fiamma antica / cominciò a crollarsi mormorando, / pur come quella che vento affatica». Ancora un’altra terzina, poi la traduzione in uno stentato francese, del tutto inadeguato, a parere dell’improvvisato traduttore, ma poi il meccanismo s’inceppa, per quanto frughi nei ricordi scolastici non ne trae che brandelli di versi, singole parole. «Ma misi me per l’alto mare aperto. Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché “misi me” non è “je me mis”, è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero dritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane». Incredibilmente, grazie al verso di Dante, un intenso profumo di mare raggiunge i due reclusi nel lager, situato nel cuore dell’Europa continentale.

Tale sconnessa lectura Dantis, nonostante tutto, procede, basandosi sempre sulla claudicante memoria di Levi, ma certo rimane intatta la terzina più importa, quella dell’orazion picciola di Ulisse ai suoi compagni: Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca: Considerate la vostra semenza: / Fatti non foste a viver come bruti / Ma per seguir virtute e conoscenza.

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.

Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie: e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle».

È, anche questo passo di Levi, qualcosa che rivela a chi lo legga la nostra semenza, è la risposta orgogliosa e autentica alla domanda che è nel titolo di quel grande terribile suo libro: sì, questo è un uomo!

A ulteriori considerazioni sulla presenza del poema dantesco nei lager nazisti mi induce la lettura, compiuta da chi scrive pochi giorni fa, di un saggio di Attilio Ciccella, Dante all’inferno: il caso Mirko Deanović, recentemente pubblicato in un volume collettaneo a cura di Giorgio Baroni e Cristina Benussi (Letteratura dalmata italiana, Fabrizio Serra editore, Pisa – Roma 2016, pp. 177 e segg. – Si veda anche la recensione di Cristina Tagliaferri pubblicata sul Ponte rosso n. 11 del maggio 2016).

Mirko Deanović (Ragusa, 1890 – Zagabria, 1984) è stato un linguista, traduttore e storico della Letteratura. Laureato presso l’Istituto di Studi Superiori a Firenze, una specializzazione in Filologia romanza all’Università di Vienna, iniziò a insegnare al liceo di Spalato, dove rimase fino al 1928, quando venne chiamato all’Università di Zagabria, presso la quale, fino al 1962, tenne la cattedra di Letteratura italiana. Il suo ambito di ricerca era decisamente vasto, anche perché poteva vantare una cultura poliglotta, conoscendo a fondo, oltre al croato e all’italiano anche il francese e il latino, ma il nucleo fondante dei suoi interessi letterari è stata la relazione tra cultura latina e slava, e segnatamente in aree mistilingui, come in effetti era all’epoca la “sua” Ragusa. Fu inoltre curioso dei dialetti, e in particolare di quello che si parlava a Rovigno. È stato autore di un Vocabolario italiano- croato e coautore di un Dictionnaire croate ou serbe-français, entrambi più volte ristampati. È stato anche l’ideatore e animatore dell’Atlante linguistico mediterraneo, il primo atlante linguistico che prende programmaticamente in considerazione lingue e dialetti di famiglie linguistiche diverse (tutte quelle rappresentate nell’ambito del Mediterraneo). Particolare fu l’interesse che rivolse nei suoi studi a Dante e qui la vicenda umana di Deanović inizia a incrociarsi con l’argomento che stiamo trattando.

Anche lo studioso dalmata, difatti, dovette, suo malgrado, subire l’esperienza di un lager nazista durante il secondo conflitto mondiale, nello Stato indipendente di Croazia concesso nell’aprile del 1941 dalle forze occupanti dell’Asse al regime collaborazionista di Ante Pavelić. Come Deanović stesso narra (in un breve brano autobiografico: La «Divina Commedia» in un campo di concentramento nel 1942, in Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia, 19-20, 1965, pp. 201-202), per ordine di Pavelić, nella notte tra il 10 e l’11 novembre del 1941, egli, assieme ad altri trentasette intellettuali, venne arrestato dalla polizia ustascia e tradotto dapprima nel lager di Jasenovac, e immediatamente dopo in quello di Stara Gradiška, «un villaggio nella pianura della Slavonia, a mezza strada circa tra Zagabria e Belgrado. Il campo si trovava in una antica fortezza adattata a prigione, alle rive del fiune Sava». Il luogo era tristemente noto per l’infame specializzazione nella sistematica eliminazione di bambini serbi. Fortunatamente la sua detenzione non andò al di là di qualche mese,, se nella primavera del 1942 aveva ripreso il suo posto all’Università, in quanto riconosciuto dai servizi segreti collaborazionisti «anglofilo, di orientamento iugoslavo, contro lo Stato, ma non è di sinistra. Non pericoloso».

Nelle fasi concitate della perquisizione della sua abitazione che avevano preceduto l’arresto, gli riuscì di mettersi in tasca un libro: si trattava di un’edizione in sedicesimo, su carta India, della Commedia edita dalla SEI nel 1934. Il volumetto divenne presto la biblioteca dei reclusi, poiché in quel luogo «non vi erano né biblioteche né libri e rari vi furono quei poveri che avevano ancora tanta energia da poter leggere in attesa della triste sorte». Tuttavia, prosegue Deanović «Quando i miei compagni di sventura videro che cosa stavo leggendo ogni giorno, cominciarono a interessarsi anche loro […] specialmente quelli che conoscevano l’italiano». Dalla manifestazione d’interesse alla richiesta di prestito il passo era breve, e si organizzò allora un sistema di prestiti che prevedeva la possibilità di avere il prezioso volumetto per un’ora, prima di restituirlo. «Da principio erano tre quattro gli “abbonati”, ma con l’andar del tempo il loro numero crebbe tanto che non si poteva soddisfare tutti. […] in quella casa del diavolo l’interesse per la Commedia fu tale che fui invitato a tenervi un corso su Dante. […]durante queste lezioni vedevo come qualcuno faceva delle note sebbene fossimo tutti sdraiati sui pagliericci, non essendovi sedie.

Uscendo poi dal campo dovetti lasciare la Commedia a quegli amici che vi dovettero rimanere ancora. Dei quali alcuni vi trovarono anche la morte. E i superstiti si dimostrarono immensamente grati per aver avuto il salutare ristoro di Dante nei più tristi momenti della loro vita e in attesa della morte».