Il robot perturbante

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  1. Introduzione: i robot umanoidi e l’avvallamento del perturbante

di Giuseppe O. Longo

 

 

Nel 1970 lo studioso giapponese di robotica Masahiro Mori pubblicò un articolo in cui descriveva la sensazione di familiarità e simpatia destata negli esseri umani dai robot umanoidi e dagli automi antropomorfi. Secondo i risultati di Mori, la simpatia cresce al crescere della somiglianza tra questi artefatti e gli esseri umani; tuttavia quando la somiglianza supera un certo livello, le reazioni positive subiscono un brusco calo e si rovesciano in emozioni negative paragonabili al “perturbamento” descritto da Sigmund Freud, su cui torneremo. Se si rappresenta su un piano cartesiano il fenomeno con un grafico che abbia in ascissa la somiglianza delle entità considerate con il corpo umano (da 0% a 100%) e in ordinata la sensazione positiva di familiarità o empatia, si ottengono le curve della figura qui sotto.

 

 

 

La linea tratteggiata si riferisce a robot umanoidi semoventi: la nostra simpatia cresce fino al 70% circa di somiglianza per poi subire un brusco abbassamento, corrispondente allo spaesamento provato dall’osservatore umano. Il valore minimo si ha in corrispondenza di uno zombie, la cui somiglianza con gli umani è grandissima ma non completa: lo zombie è un essere che ha tutta l’apparenza e il comportamento di un umano, ma è privo di mente, coscienza ed emozioni. Tuttavia al crescere ulteriore della somiglianza la curva risale, per esempio quando ci si confronta con arti artificiali o con marionette e raggiunge il massimo quando gli osservatori si trovano di fronte a esseri umani. La cunetta presentata dalla curva si chiama “avvallamento del perturbante” (in inglese uncanny valley). Un andamento analogo, ma meno spiccato, si osserva nel caso di oggetti privi di movimento, come animali impagliati o bambole (linea continua): l’avvallamento del perturbante raggiunge il minimo quando ci si trova davanti a cadaveri, cioè a corpi umani inanimati.

È forse possibile spiegare l’effetto perturbante come il risultato di due spinte opposte: da una parte l’osservatore è disposto a simpatizzare con l’oggetto che ha di fronte (per esempio un robot umanoide semovente o androide) attribuendogli molte caratteristiche umane che magari il robot non possiede; dall’altra ha la consapevolezza che si tratta pur sempre di un oggetto artificiale, e non di un essere umano. Il conflitto tra l’inclinazione ad attribuire l’umanità al robot e la cognizione che si tratta di un artefatto volge a favore della prima finché la somiglianza non è eccessiva: oltre una certa soglia il soggetto subisce una sorta di dissonanza cognitiva e si trova spaesato o perturbato.

Il concetto di spaesante o perturbante fu analizzato da Sigmund Freud in un saggio del 1919, intitolato appunto Das Unheimliche, comunemente tradotto con Il perturbante. Ciò che è perturbante, spaesante, sinistro suscita quella sfumatura particolare dello sgomento che si prova quando una situazione o un’entità animata o inanimata è percepita allo stesso tempo come familiare ed estranea.

Nel 1970 non si costruivano ancora robot umanoidi, quindi i risultati di Mori furono a lungo ignorati, ma oggi sono diventati importanti perché pongono i costruttori davanti alla decisione se superare l’orlo dell’avvallamento per sprofondarvi oppure arrestarsi prima. In un’intervista del 2012 lo studioso giapponese ha dichiarato che i roboticisti dovrebbero puntare al picco che precede l’avvallamento, senza tuttavia superarlo: insomma i robot dovrebbero restare diversi dagli umani. Tentare di superare la valle potrebbe essere rischioso e comunque Mori ritiene che non ci sia alcun bisogno di robot umanoidi.

È evidente che queste considerazioni hanno a che fare con l’estetica, cioè con l’aspetto esteriore dei robot. La somiglianza delle forme acuisce l’inquietudine: un robot che abbia l’aspetto di un frigorifero non c’impressiona quanto un umanoide, anche nel caso che quest’ultimo sia dotato di un’“intelligenza” inferiore al primo. All’umanoide tendiamo ad attribuire caratteristiche umane (intelligenza, sentimenti, emozioni…) che esiteremmo a concedere ai robot non antropomorfi. Le suggestioni derivanti dalla somiglianza esteriore sono potentissime e formano un cortocircuito destabilizzante quando si scontrano con la consapevolezza che ci si trova di fronte a una macchina.

Nelle puntate successive questi temi saranno ripresi, approfonditi, e sviluppati.

 

(1-continua)

 

Nota: Gli articoli sul tema Il robot perturbante si basano sul saggio L’uomo artificiale e il perturbante pubblicato su Mondo Digitale, XV, n. 63, Aprile 2016, pp. 1-21.