SPECIALE SG Saba e Giotti sessant’anni dopo

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Nella medesima notte, quella compresa tra il 24 e il 25 agosto 1957, Vigilio Giotti veniva trasportato all’ospedale e non sarebbe mai più tornato a casa e Umberto Saba moriva («dissero d’infarto», come, calcando con intenzione l’accento sul verbo, scrisse Nora Baldi, l’amica che gli fu più vicina in quegli ultimi mesi trascorsi nella clinica di Villa San Giusto a Gorizia, gestita dai Fatebenefratelli).

Nello spazio di poche ore, la Poesia perdeva, quasi in una sinistra sincronia, i suoi due maggiori esponenti triestini, aprendosi così a un lutto di cui tanto Trieste quanto l’Italia sembravano non comprendere appieno la portata. Saba, d’altra parte, sembrava conscio del fatto che il suo agire in poesia era non compreso dai più, rimandando un bilancio a molti anni dopo la sua morte. In un minuscolo foglietto conservato gelosamente da Nora Baldi, il poeta appuntò questa ruvida osservazione in versi, con i segni di almeno tre varianti che hanno preceduto la forma definitiva: «A Trieste la Nora / che conosce il Canzoniere a memoria / non sa di averne scritti gli ultimi versi: / poeta è come il porco, si pesa dopo morto».

Sessant’anni sono bastevoli per “pesare” un poeta, e anche per “pesarne” due e gli orientamenti, anche i più recenti della critica, sembrano assegnare ai nostri due il posto che meritano nel complesso affresco della poesia del Novecento. Certo, per Saba la scelta di esprimersi in italiano ha favorito una più larga diffusione, ma anche per Giotti, a iniziare da Pier Paolo Pasolini, si è prodotto un generale unanime riconoscimento dell’alta qualità del suo verso e per entrambi il fiorire di traduzioni, pur nei limiti alla godibilità di un testo poetico che sono connessi alla difficoltà di conservare nessi semantici e sonorità di un testo declamato in due diversi registri linguistici, testimoniano della vitalità di cui godono tanto le opere di Saba quanto quelle di Giotti anche al di là dei confini linguistici nazionali.

Se sessant’anni sono un intervallo sufficiente a valutare con serena equanimità il lavoro di un poeta, accantonando infatuazioni per mode passeggere, conformistici pregiudizi e rese incondizionate ai luoghi comuni dei tempi, un così protratto lasso di tempo rischia di relegare i suoi volumi sullo scaffale più alto e disagevole della biblioteca domestica, venerato, certo, col turibolo della più alta considerazione, senza che tuttavia la mano corra frequentemente ad estrarlo da quel famedio di carta dove continua ad impolverarsi.

Per i due poeti cui questo numero speciale del Ponte rosso intende rendere omaggio ritengo che questo pericolo sia, almeno ad oggi, del tutto scongiurato, e non soltanto perché l’altezza del loro messaggio poetico è tale da parlare direttamente al cuore e alla mente di chi apre il loro volume, come le parole dei grandi classici che li hanno preceduti negli anni e nei secoli chesono venuti prima della loro esperienza umana ed artistica, ma anche perché ragioni forse meno avvertibili ce li rendono, ancora, contemporanei. Nelle pagine che immediatamente seguono questa, Cristina Benussi individua con lucidità le ragioni di tale attualità tanto di Saba quanto di Giotti, indicando in una corrispondenza tra il messaggio estetico e un sottaciuto ma vitale assillo etico della loro poesia la chiave di lettura di un impegno umanistico che, diluito nel limpido fluire della parola nel verso, continua a parlare a ciascuno di noi.