Vito Timmel: scie d’immagini e di parole

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di Fulvio Senardi

 

Di Vito Timmel sappiamo quasi tutto. Nato nella capitale dell’Impero da una famiglia di sangue blu e sicuramente anoressica sul piano emozionale, tanto da fragilizzare lo psichismo del figlio che si tufferà, uomo adulto, nell’alcool e nella “débauche”, Vito sente con passione precoce il richiamo dell’arte, imboccandone i sentieri con spirito gagliardo e vagabondo; l’air du temps ne impregna l’estrosa tavolozza, ma il decorativismo alla Klimt, le movenze voluttuose delle sue figure femminili si aprono presto al respiro di suggestioni metafisiche e il cromatismo quanto mai originale ha la sapida freschezza della cartellonistica, fermandosi a un passo dall’espressionismo. Declinazioni di impronta surrealistica orientano il suo eclettismo verso un’originale pronuncia simbolistica, in pieni anni Trenta, quando si assiste in Italia al trionfo di un esangue classicismo, che egli sfida con un gusto del paesaggio che ricorda Kandinskij e caricando certe figure, specie i nudi femminili, di gravezza che parrebbe michelangiolesca e ha invece riflessi di art deco. Se Vienna è il luogo degli studi e dell’apprendistato all’Accademia d’arte applicata (Kunstgewerbschule) che modella in modo indelebile la sua maniera, Trieste è la città vocazionale: l’intellettuale cosmopolita (von Thümmel, all’anagrafe imperiale) ostenta la parlata dialettale, gli orizzonti marini aprono ai suoi occhi visioni di libertà e i colori adriatici sembrano schiudere una promessa di gioia compiuta (vien fatto di pensare, anche per la tavolozza straordinariamente carica, come in pochi pittori del suo tempo, al “sogno di Trieste” che Egon Schiele traduce in quella barca di pescatori che andrà all’asta a Londra in febbraio). Di questa esistenza indifesa e bramosa di felicità Magris ha fatto una pièce, che ha debuttato nel 2006 a Milano e prima ancora elaborato una riflessione saggistica (oh come ci spiace il silenzio del grande germanista capace, con poche frasi, di sintetizzare con tocco magistrale un’epoca o un’esperienza di vita!) che introduce le pagine del Magico taccuino (1973) del pittore. Una sorta di affascinante e disperato giornale di bordo dell’auto-distruzione che dallo psichico (Timmel si spegne durante un ricovero in manicomio) riverbera sul piano linguistico, scatenando fantasie e fantasmi, voli di incantamento e abissi di amarezza. Bene, grazie ad Alessandra Scarino (Il preferito della strada – Il magico viaggio di Vito Timmel, Libertà Edizioni, 2018) Trieste paga di nuovo il suo debito a questo genio tormentato. Con una scrittura insieme densa e aerea, studiatamente “sopra le righe” fino a esiti di visionarietà, Scarino sposa le fantasie del grande infelice coinvolgendoci in una spirale dove l’emozionalità esaltata di un’anima in sofferenza, cresciuta nelle atmosfere roventi, tra acre carnalità e aereo spiritualismo della fin-de-siècle, si lascia alle spalle la realtà oggettiva, abbandonata a se stessa come un inerte carapace, per celebrare invece la potenza del sogno. Un sogno cui la scrittrice dà ricca sostanza verbale, tanto che, nei punti di sutura, dove il narratore è chiamato, per esigenza di intelleggibilità, a definire luoghi e tempi concreti e veri, si accende nel lettore il desiderio di essere ricondotto alle fantasie randage e allo sfolgoranti epifanie che quella realtà negano e trascendono. Il rifiuto per un mondo di costrizioni e doveri, sentito da Timmel con un insanabile strazio dell’anima (noi, molecole di una folla eterodiretta viviamo ormai senza traumi il nostro andare guidato) trova in quell’universo altro la sua consolazione, là dove la materia si frammenta in luce e suono, l’esistenza si spiritualizza in visione, la libertà è quella piena e assoluta di un Io fantasticante. Scarino tiene sospesa la domanda se la morte di Timmel non sia, per lui, una liberazione. Il perfetto compimento di un destino. Resta una fulgida scia di immagini e, grazie alla scrittrice che lo ha capito, di parole.