La Grande Guerra degli scrittori giuliani

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Una raccolta di saggi: Adriatico in fiamme nel primo conflitto mondiale

Il punto di vista di dodici studiosi sugli scrittori coinvolti a vario titolo nella guerra, da una parte o dall’altra del fronte

di Luca Zorzenon

 

Nella cultura italiana la Grande Guerra segna un capitolo notevole della storia novecentesca degli intellettuali, su cui molto si è scritto e si continua a scrivere. Rilancio odierno del tema è il recentissimo Adriatico in fiamme curato da Fulvio Senardi, saggi raccolti dagli esiti di un omonimo convegno di studi. Circoscrizione, quella dell’area giuliana, che tanto condivide dei caratteri e degli aspetti della più vasta prospettiva nazionale ma, per ben noti motivi geopolitici, ne presenta altri affatto particolari. Le fiamme della guerra nel Litorale adriatico, per rimanere nella metafora del titolo, avvolgevano italiani, sloveni, altre nazionalità asburgiche che a diverso e vario titolo potevano considerare Trieste e il suo hinterland terra da difendere o da conquistare come propria. E non sempre il colore della divisa poteva dirsi puntualmente rappresentativo della nazionalità. Il Carso giuliano è una terra che mantiene vive le tracce della memoria di ungheresi, dalmati, croati, sloveni, cechi, polacchi, bosniaci, tedeschi, oltre che di italiani, che vi combatterono, motivati o coatti, con coraggio, terrore e vigore. Un piccolo lembo di fronte – quello giuliano-carsico – in cui si incrociarono in armi una quantità e varietà di popoli unica. E, alla fine, un impero che li teneva assieme implode nella sconfitta storica definitiva. E ben scrive Cristina Benussi nel suo Storia e memoria introduttivo al volume, citando il Zanzotto di Galateo in bosco, che la «desacralizzazione del sacrificio di milioni di persone operata dalla civiltà dei consumi» rischia di spegnere, per ottundimento da fracasso del presente, ogni traccia vera di memoria, e dunque ogni serietà di storia.

Nel volume, scrittori giuliani italiani e sloveni compongono il quadro di un’analisi critica che, se non poteva aver la pretesa dell’esaustività, offre ottimi spunti rappresentativi di temi, ideali, atteggiamenti, scritture, percorsi individuali degli intellettuali giuliani nella Grande Guerra.

E una prima notazione conferma un aspetto importante della letteratura di guerra italiana: che non conosce scrittori (fra i maggiori) che della guerra rappresentino una condanna radicale. Non c’è (anche fra i nomi più significativi che ne hanno descritto gli orrori, l’insipienza dei comandi e la delusione per gli ideali traditi: Lussu, Stuparich, Gadda, Salsa e altri) un Barbusse di Le feu, un Remarque di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Ed è cosa singolare, se si pensa che l’intervento in guerra dell’Italia è il più contrastato e divisivo in Europa, dal punto di vista sociale e politico, nel confronto anche acceso fra neutralisti e interventisti e che il «maggio radioso» è ben altra cosa dall’union sacrée delle «comunità d’agosto» parigine, viennesi o berlinesi, che intellettuali di altri Paesi ci hanno, retoricamente o meno, descritto.

Ce ne dà conferma anche Adriatico in fiamme, in cui le uniche voci che leggono la guerra attraverso la lente del rifiuto sono slovene. Miran Košuta scandaglia la miglior poesia di France Bevk (quella che trae la propria ispirazione dall’orrore della guerra e la sa volgere ad esiti espressionisti vicini a Georg Trakl) articolandone la fonte irriducibilmente antimilitarista, pacifista e umanista in una triplice dimensione: dell’esperienza bellica soggettiva, della più vasta riflessione politico-filosofica, dell’antifascismo post-bellico. «Fumo e cannoni, fucili, taglio, rugghio, strazio!», la guerra di France Bevk: una guerra che per gli sloveni inglobati nel Regno e presto sottoposti alla dura logica segregazionista e snazionalizzatrice del fascismo di confine non può riscattare la sua bestialità disumana, nemmeno in nome del sacrificio per la conquista di una patria.

La sequenza nominale e cumulatoria di Bevk pare dirci che la guerra esclude drasticamente la parola, il racconto, vi si oppone come radicale alterità: solo rumori, urla, armi, atti immediati di violenza. Rebora, fra i nostri maggiori, ne trae le conseguenze più estreme: «[…]Però se ritorni, / tu, uomo, di guerra / a chi ignora non dire; / non dire la cosa, ove l’uomo / e la vita s’intendono ancora. / Ma afferra la donna / una notte, dopo un gorgo di baci, / se tornare potrai; / soffiale che nulla del mondo / redimerà ciò che è perso / di noi, i putrefatti di qui;[…]». La parola, il racconto (e, dunque, la parola letteraria) nella guerra sperimentano la loro negazione, l’ammutolimento. Hanno perduto la capacità di «redimere» l’orrore, il negativo della vita. Un’immagine tragica, inversamente proporzionale alla fiducia ungarettiana nelle virtù simbolico-redentrici della parola poetica, e precorritrice, invece, del silenzio afasico che fu del dramma dei sopravvissuti ai lager nazisti, o, se vogliamo, anticipatrice del dubbio adorniano sulla possibilità della poesia dopo Auschwitz.

Anche nel diario di guerra Ob Soči di Aloizij Res letto da Remo Castellini l’ottica è quella della guerra-pura distruzione, e la prospettiva prevalente quella della descrizione della sofferenza materiale e morale dei civili nelle città di Trieste e Gorizia. Ma compare anche un cenno alla reazione che fu di molti (intellettuali e semplici soldati) di fronte allo “spettacolo” della guerra: il bombardamento di Gorizia dal monte Calvario affascina Res fino all’ammissione di ineffabilità (anche qui) dinanzi a ciò che gli si rivela come una «terribile bellezza».

Il rapporto tra l’azione più brutale, la guerra, e quella più umana, la parola (che si fa riflessione, racconto, espressione, memoria), è il più arduo, sofferto, tormentato: mette a durissima prova l’intellettuale, il letterato, in quelle che della parola sono funzioni egualmente essenziali nel rapporto con la realtà: oscurare, conservare/redimere, rivelare.

E se Renato Serra, poco prima di morire al fronte, e sciogliere così in un’ora di passione collettiva la propria solitudine di uomo di lettere nella fratellanza (sia pur militarizzata) di una comunità di eguali dedita ad un unico impegno morale, scriveva che la guerra non avrebbe cambiato né la letteratura né i letterati, che sarebbero poi tornati, «emergendo da una fiumana», al medesimo lavoro di prima, l’esperienza del reduce nella scrittura di Giani Stuparich gli dà qualche ragione e parecchio torto. Giovanni Capecchi lo definisce lo scrittore italiano della Grande Guerra più completo e continuo, il solo ad aver saputo affrontate tutte le diverse forme della scrittura di guerra in differenti fasi storiche: dal diario di trincea al soliloquio intimo in forma di dialogo lirico-sacrale col fratello Carlo, dal romanzo alla saggistica all’opera editoriale. La centralità di Stuparich nel percorso dell’intero libro sta nel suo corpo a corpo con la scrittura, che è rovello di un’intera vita, testimonianza continuamente rielaborata, intimamente e pubblicamente, per oltre quarant’anni, della brutalità bellica e insieme del tentativo inesausto di costruire e salvare il senso della guerra italiana e il suo valore ideale da non disperdere, pur nel drammatico attraversamento del ventennio fascista.

Prolunga la riflessione su Stuparich Roberto Norbedo nella puntuale ricognizione che lo studioso opera delle tracce di un altro “colloquio”, con un altro “fratello” (in questo caso, un fratello “maggiore” e di elezione, Scipio Slataper), in un «rapporto di imitazione/emulazione» col Mio Carso colto all’interno della migliore scrittura narrativa di Stuparich, quella dei racconti (in particolare Un’estate a Isola) confluiti nell’einaudiano Il ritorno del padre.

Contraltare ideologico, la narrativa, ben minore al confronto con Stuparich, di Federico Pagnacco, rivisitata da Fulvio Senardi. Che testimonia anche in questo caso di una lunga fedeltà alla guerra patriottica, ma con i segni ideologici di un irredentismo che sfocia nel nazionalismo imperialista e nel fascismo, in astiosa polemica, anche diretta, con lo Stuparich di Ritorneranno. Nei romanzi di Pagnacco Senardi rileva un’importante testimonianza giuliana del clima politico e sociale torbido del dopoguerra in cui il reduce sconta il rientro nella prosa della vita borghese che spegne le epiche idealità del suo avventuroso, inebriante irredentismo. E la “redenzione”, politica, sociale e fin psicologica, trova poi completamento revanscista nel percorso che conduce al nazionalismo autoritario della Grande Italia promessa dal fascismo, alla individuazione dell’eterno nemico contro cui perennemente combattere in nome della nazione, lo slavo, l’ebreo e il sovversivo antifascista.

Vicino all’interventismo mazziniano di Stuparich, Giulio Camber Barni con la sua Buffa. Lorenzo Tommasini, recente curatore di un’edizione critica dell’opera, nel saggio a Barni dedicato, mette a frutto una riflessione dello storico Paul Fussel sulla memoria letteraria degli scrittori di guerra, ossia sugli influssi di letture precedenti l’esperienza bellica riscontrabili all’interno delle loro opere. Così, Tommasini ben indaga e rileva ne La Buffa le tracce letterarie che, nella moltitudine composita dei molteplici possibili riferimenti, tanto stilistici quanto tematici, si accentrano in particolare sulla figura di Tommaseo e sui Canti lirici.

Non altrettanto pathos nei vertici letterari triestini: rifrazione letteraria più laterale, mediazione intellettuale più spessa. Per Stefano Carrai, che raccoglie uno spunto di Giordano Castellani (in Saba «la guerra, pur con la sua atrocità, è ridimensionata a confronto con l’imperturbabilità della vita e della solitudine del poeta»), Saba «anche sullo sfondo della guerra, rimaneva sempre Saba, con tutto il suo egocentrismo e la sua privata sofferenza, che spesso prendevano il sopravvento sul dolore e sulla morte del prossimo, peraltro lontano dal suo punto di osservazione». Fabio Todero rievoca la profonda riflessione sulla Grande Guerra nella Coscienza di Zeno (la famosa, visionaria pagina finale, di un “apocalissi della modernità” novecentesca, per dirla con lo storico Emilio Gentile) e nei frammenti del quarto inconcluso romanzo scandagliando le pagine sveviane sulla linea sottile che unisce e insieme separa l’uomo, il cittadino e l’imprenditore Ettore Schmitz, lo scrittore Italo Svevo e il suo alter ego romanzesco, Zeno Cosini.

La storia degli intellettuali italiani nella Grande Guerra è fatta anche di conversione di atteggiamenti e di riposizionamento di idee tra un prima, un durante e un dopo. Roberto Todero ne legge un particolare capitolo “giuliano” nella vicenda personale di Julius Kugy, grazie anche a documenti inediti. Irredentista prima della guerra, nel dopoguerra vicino a posizioni antimilitariste, nel ’17, a cinquantasette anni d’età, Kugy si arruola volontario nell’esercito austro-ungarico e briga non poco per ottenere il riconoscimento di una decorazione ufficiale per meriti di guerra.

Non testimonianza diretta, diversa la generazione intellettuale, l’eco della Grande Guerra in Quarantotti Gambini è già interna alla ricezione postuma che spinge il 14’-’18 verso prospettive storiche successive e fino agli esiti della Seconda guerra mondiale. Se ne occupa Alberto Brambilla che rilegge Il cavallo Tripoli (1956) anche nei termini di un’educazione sentimentale di Paolo, l’adolescente protagonista, che si orienta e disorienta nelle maglie della storia drammatica delle terre di confine in cui italiani, austriaci, slavi compongono un mondo adulto di segreta o aperta conflittualità ideologica e tensione sociale che la Grande Guerra schiuse al secolo entrante fin dai suoi esordi.

 

 

 

 

Fulvio Senardi

(a cura di)

Adriatico in fiamme.

Tracce e memoria

della Grande Guerra

negli scrittori giuliani

Istituto Giuliano di Storia Cultura

e Documentazione,Trieste-Gorizia 2019

  1. 150, euro 15,00