La tragedia della Elisabetta Montanari

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A Ravenna, il 13 marzo 1987, tredici operai perirono nelle stive di una gasiera in un bacino di carenaggio.

di Umberto Laureni

e Leandro Lucchetti

 

Il teatro è diventato spesso luogo di racconto delle tragedie di oggi, le ha trasformate in rappresentazioni che colpiscono gli spettatori, che li fanno sentire partecipi e li fanno commuovere. E questo anche se si adottano i toni asciutti di Marco Paolini che parla dei morti della Montedison di Marghera, di quelli del Vaiont o del DC9 di Ustica.

L’8 gennaio scorso al teatro Miela di Trieste è andato in scena lo spettacolo …telefonano che c’è un incendio su una nave …, ricostruzione del più grave infortunio sul lavoro del dopoguerra in Italia, in cui tredici operai morirono nella stiva della motonave Elisabetta Montanari a Ravenna il 13 marzo 1987. Si è trattato della prima rappresentazione “pubblica” dopo due eventi dedicati rispettivamente all’Istituto scolastico “Bearzi” di Udine a all’Istituto “Volta” di Trieste.

Come è nato e come è stato realizzato lo spettacolo sulla Montanari? Chiediamo a Umberto Laureni di raccontare la genesi della rappresentazione:

«Ho fatto parte del collegio di parte civile, cioè del pool di tecnici e avvocati che rappresentarono le famiglie degli operai che il 13 marzo 1987 persero la vita, per aver inalato fumi tossici, nella stiva e nei doppifondi della motonave Elisabetta Montanari.

Il mio compito era di affiancare i periti del tribunale, supportandoli, con osservazioni e richieste specifiche, nella loro indagine sulle cause dell’evento e nella ricerca delle colpe e delle responsabilità.

In questa veste presi visione diretta degli ambienti in cui morirono i lavoratori e partecipai alla ricostruzione delle fasi che avevano portato alla tragedia.

Quello che emergeva dall’indagine era che quelle morti erano state il risultato ultimo (potremmo dire quasi inevitabile) di una incredibile sequenza di omissioni condite dal cinismo dei responsabili dei lavori e dalla impotenza dei controlli. Insomma nulla poteva far rimandare a quel concetto di “tragica fatalità” che spesso si invoca per giustificare eventi del genere. E tutto ciò era successo in quella che, meritatamente, era ritenuta la regione d’Italia più avanzata in materia di prevenzione degli infortuni e delle patologie lavorative.

Al di la dell’evento contingente, la tragedia delle Montanari costrinse l’Italia a fare i conti con una realtà lavorativa per molti versi non compiutamente conosciuta né tanto meno valutata nella sua pericolosità. Eppure non era lavorazione né saltuaria né poco diffusa: si trattava della pulizia delle stive e dei doppifondi, cui deve sottostare una nave durante lavori di riparazione, trasformazione o riclassificazione, al fine di asportare tracce di nafta o di altro materiale infiammabile, prima di procedere con operazioni di taglio con fiamma ossiacetilenica.

Anche se confrontarmi con infortuni e malattie professionali era il mio mestiere, tuttavia quello di cui fui testimone mi colpì fortemente.

Per questo da allora ho deciso che quei fatti li avrei raccontati ogni volta che me ne fosse stata data l’opportunità, per tenere viva la loro memoria. Lo ho fatto decine di volte, nelle sedi più disparate. Il mio è un semplice racconto orale supportato da una ventina di diapositive, non serve un teatro, bastano un proiettore e una parete bianca. Ma, ciononostante, ha sempre suscitato commozione e sdegno».

 

è seguendo la traccia di questo racconto “per voce ed immagini” che è stato costruito lo spettacolo teatrale …telefonano che c’è un incendio su una nave …, nell’intuizione che i fatti di Ravenna avrebbero potuto acquistare ancora maggior vigore in una rappresentazione scenica.

Leandro Lucchetti è stato insieme autore del copione e regista dello spettacolo, Sergio Pancaldi e Luca Famularo ne sono stati gli interpreti.

Lo spettacolo ha una forte valenza didattica, mette in luce la difficoltà di organizzare lavori pericolosi e complessi. Aiuta sicuramente a riflettere e per questo verrà proposto in primo luogo alle scuole.

è attuale una rappresentazione su questo argomento? La risposta è sì, visto che i morti sul lavoro sono tragedie che si ripetono in Italia con spaventosa continuità e che stanno, in qualche modo, generando assuefazione invece che vero sdegno sociale.

Il morto singolo finisce nelle pagine interne dei giornali, se muoiono in tanti allora assistiamo alla litania delle dichiarazioni politiche (“non deve più succedere” oppure “è inammissibile che oggi succeda ancora”) e alla ripetizione delle cose che si dovrebbero fare per ridurre il fenomeno (più formazione, più addetti alla vigilanza, più cultura…). La sensazione è che tutto finisca lì e che si dimentichi prestissimo.

Ma la sua attualità deriva anche dal fatto che oggi queste tipologie di incidenti continuano a ripetersi con grande frequenza. Sembra assurdo crederlo, eppure non si è ancora realizzato che quando si entra in un ambiente circoscritto, non solo nella stiva di una nave, ma anche in un serbatoio, in una autocisterna o nella fossa di raccolta di liquami domestici, corriamo rischi di asfissia (per mancanza di ossigeno), di intossicazione da sostanze tossiche o di scoppio / incendio se si innesca una miscela incendiaria. Spesso succede una strage per generosità: un operaio si sente male in uno di questi ambienti, il secondo si precipita a soccorrerlo, e poi un terzo e così avanti…

Questa è la realtà di oggi, non storia vecchia di trentatre anni fa.

E allora, di fronte a questo stato di cose, un aiuto lo può dare anche l’impatto emozionale di uno spettacolo, la realtà raccontata che diventa un pugno nello stomaco e che per questo forse non si dimenticherà.

Ci facciamo narrare da Leandro Lucchetti come, dal testo alla regia, si sia realizzata la rappresentazione:

 

«Ho sentito parlare del caso Elisabetta Montanari per la prima volta durante una riunione del direttivo del Circolo di studi politico-sociali Che Guevara. Umberto Laureni rievocava quella tragedia e concludeva: “bisognerebbe fare qualcosa perché non venga dimenticata”. Che storia, ho pensato! Il più grave infortunio sul lavoro del dopoguerra in Italia! Com’è che io non ne sapevo niente? Probabilmente, quando la tragedia avvenne, ero da qualche parte nel mondo a girare un film o un documentario.

Da ex-cinematografaro ho subito pensato, per deformazione professionale, che c’erano tutti gli ingredienti per farne un film importante, capace di scuotere gli spettatori, per richiamare l’attenzione sul terribile problema delle morti sul lavoro. Ho sempre rimproverato all’attuale cinema italiano di essere culturalmente carente per quel che riguarda la narrazione dei fatti della nostra storia e delle nostre problematiche sociali. è la commedia la connotazione ufficiale del nostro cinema oppure hanno successo i casi di cronaca nera, le serie sulle mafie camorre e ndranghete.

Fin troppo facile ipotizzare che una sceneggiatura per un film che raccontasse una disgrazia sul lavoro non avrebbe trovato nessun interlocutore interessato alla produzione anche se c’erano tutti gli ingredienti giusti: i lavoratori precari, cercati e arruolati dai caporali, sfruttati col lavoro nero; le vicissitudini personali di ognuno; le speranze di un lavoro; il primo giorno di lavoro che per qualcuno diventa anche l’ultimo. E l’ambiente da film horror: il sottofondo della stiva di una nave, alto non più di ottanta/novanta centimetri, dove bisogna strisciare per rimuovere la morchia e i residui di nafta. Una vera trappola per topi in cui basta una scintilla per provocare le fiamme e il fumo di un incendio che non lascia scampo perché non c’è il tempo per districarsi attraverso gli angusti passi d’uomo che a malapena ti consentirebbero di salire verso l’aria aperta sopra la stiva.

E dunque che fare? Lasciar perdere, far finta di non aver sentito l’accorato racconto di Umberto? No, qualcosa si poteva fare. Resta pur sempre la risorsa della parola, no?! E dunque si poteva prima di tutto documentarsi bene su come si erano svolti i fatti e poi scrivere una pièce teatrale, la più semplice, scabra e “povera” possibile che non richiedesse un grosso impegno finanziario e potesse “agilmente” essere rappresentata non solo in teatro ma nelle scuole.

Bastava una semplice struttura che riproducesse il sottofondo della stiva di una nave in maniera che lo spettatore potesse rendersi visivamente conto di cosa significhi lavorare strisciando in un cunicolo alto ottanta/novanta centimetri. Ci voleva uno schermo su cui proiettare delle diapositive ed erano sufficienti due attori: Voce, cioè la voce narrante che ricorda a chi ascolta lo svolgersi dei fatti, e Picchettino, l’operaio che scende a lavorare nel sottofondo delle stive delle navi e tecnicamente viene designato con questo nome che sembra un scherzo. I due attori, con l’uso della proiezione di immagini, si danno sulla voce l’un con l’altro e in un crescendo di drammaticità svelano agli spettatori la tragedia, com’è avvenuta e perché è avvenuta, scoprendo i rapporti che li legano. Voce è stato uno dei caporali che, mentre il fumo invadeva il sottofondo della stiva della Montanari e uccideva tredici lavoratori, andavano casa per casa e richiedevano ai familiari i libretti di lavoro per metterli in regola. Picchettino può raccontare come si lavora nel sottofondo delle stive perché si è licenziato poco prima che avvenisse la disgrazia.

Bisognava avere la voglia e il coraggio di provare a scrivere delle battute che spiegassero con chiarezza e semplice immediatezza gli accadimenti, le concomitanze di cause fortuite dovute alla mancata osservanza delle più elementari regole di prevenzione. Parole che raccontassero lo strazio delle morti e dei funerali ed anche la lunga sequenza dei processi che si sono succeduti e che hanno individuato i responsabili ma ne hanno variamente modificato, fra corsi e ricorsi, le condanne fino a che la conclusione è stata che nessuno ha fatto un solo giorno di galera. Un compito non facile, certo, ma non impossibile e del resto se non ci si butta e non si prova nulla si ottiene. Ci ho provato, con la consulenza storica di Umberto Laureni, il coinvolgimento di Sergio Pancaldi e Luca Famularo come attori, e il risultato funziona, la gente è colpita, gli studenti delle scuole ascoltano con interesse. Mi fa piacere essere riuscito a rispondere all’appello di Umberto, al suo “bisognerebbe fare qualcosa perché non si dimentichi”. La storia mi ha preso e non mi ha più lasciato, tanto che non ho potuto fare a meno di assumerne anche la regia. Per il resto ogni giudizio è demandato a chi assiste a …telefonano che c’è un incendio su una nave …, e se ne lascia “prendere”».