Il pane perduto di Edith Bruck

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di Fulvio Senardi

 

Ci sono libri che risuonano come urla nel silenzio, ed uno di questi è Il pane perduto di Edith. Ancorché lo stile sia mite e sommesso (ma fermo e sicuro di sé). Stile di cose, senza rancore né invettive, e perciò tanto più capace di gelarci il sangue, quando Bruck racconta di umiliazione, deportazione, selezione; la sua vicenda. Resoconto da quell’abisso in cui l’umanità ha precipitata se stessa, avendo come mandatario il popolo tedesco, fra i più civili e colti del Novecento (come a dire che tra civiltà e abiezione il passo è così breve che ci viene richiesto, insieme al sussulto etico, sensibilità civile e vigilanza).

Dobbiamo considerarlo il testamento spirituale della scrittrice quasi novantenne? Un po’ come il discorso di Liliana Segre alla Cittadella della Pace di Arezzo, l’ultima uscita in pubblico com’ella ha tenuto a dire, e che non lascia indifferente chi lo ascolta (Internet, in questo caso benemerito, lo mette a disposizione di tutti)? Ci auguriamo che non sia così. Il pane perduto è un po’ il sunto della vita della Bruck: deportata in Germania, ancora bambina, insieme a migliaia di ebrei ungheresi, vive l’esperienza del lavoro forzato, mentre intorno a lei i forni crematori disperdono al vento le ceneri delle “razze inferiori”. Sopravvive alla marcia della morte, per rinascere infine alla libertà, ma solo per toccare con mano il fastidio di chi vedeva nei sopravvissuti i fantasmi di una colpa da espiare: «la gente era respingente ovunque, frettolosa, impaurita, sospettosa, snervata e desiderosa di liberarsi di noi al più presto. Alla stazione di Bergen Belsen […] ci guardavano come fossimo fantasmi». Rientra in Ungheria, nel suo minuscolo villaggio nel nulla di pianure infinite, mal sopportata da chi aveva visto con sollievo la patria magiara liberarsi dalla “muffa” ebraica. Uno di quei ritorni dei perseguitati nell’Europa centrale slavo-ungherese che si scontra con l’avversione dei rimasti, murati nel pregiudizio anti-giudeo; da qui un nuovo ripudio, un nuovo esilio, in certi casi addirittura la morte (come a Kielce, dove avvenne il massacro che fece fuggire dalla Polonia un quinto degli ebrei salvatisi dall’Olocausto). Voltate le spalle all’Ungheria, Edith finalmente assaggia la vita, solca il mare, visita la Palestina. Che lascerà non volendo imbracciare le armi per fare ebraica la terra promessa. Il pane è di nuovo perduto; ma, un lieto fine che il titolo non promette, prossimo ad essere ritrovato: dopo Atene e Zurigo, inventatasi una professione di ballerina, Edith raggiunge Napoli: «per la prima volta mi trovavo bene subito, dopo il mio lungo e triste pellegrinaggio; ‘Ecco’, mi dicevo, ‘questo è il mio Paese. La parola patria non l’ho mai pronunciata: in nome della patria i popoli commettono ogni nefandezza. […] Ci vorrebbero parole nuove anche per raccontare Auschwitz, una lingua nuova, una lingua che ferisce meno della mia, natia».

La lingua è l’italiano; anch’essa impastata di ipocrisia, persecuzione, morte. Ma Edith non sa nulla dei figli della lupa e degli zelanti collaboratori di Hitler in camicia nera. E in italiano comincia a raccontare, a partire dal primo libro del 1959, Chi ti ama così. Una missione di testimonianza del dolore del mondo che le si cuce addosso come una seconda pelle: darà voce anche alla sofferenza del marito Nelo Risi che accompagna nel percorso attraverso la demenza fino alla morte nel 2015 (La rondine sul termosifone, 2017). Nell’ultimo capitolo del Pane perduto una preghiera a Dio, il dio sconosciuto, forse inesistente ma spesso invocato: «Ti prego, per la prima volta chiedo qualcosa: la memoria, che è il mio pane quotidiano, […] non lasciarmi nel buio, ho ancora da illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole e nelle aule universitarie dove in veste di testimone racconto la mia esperienza da una vita». Amen

 

Edith Bruck

Il pane perduto

La nave di Teseo, 2021

  1. 126, euro 16,00