Zucchine
Il Ponte rosso N° 43 | Luisella Pacco | marzo 2019 | racconto
di Luisella Pacco
– … ma insomma, mi senti?!… la cena è in tavola!… Muoviti, si fredda tutto, lo sai che le zucchine impanate devono essere mangiate sul momento altrimenti diventano flaccide! Ti sbrighi? Cos’è che fai a quel computer?! Appena ti ci siedi davanti, non capisci più niente. Nemmeno riesco a parlarti o vederti, sei sempre là, e io sono sempre sola, una povera vecchia senza nessuna compagnia. Scrivi, dici, scrivi! Ma cosa scrivi? Cos’hai tanto da scrivere? Impara a cucinare, piuttosto, ché quando io non ci sarò più aprirai solo scatolette! Una vera donna deve saperci fare in cucina, è ora che impari, ragazza mia, sei adulta, anzi quasi vecchia, ma non tutto è perduto, un uomo per bene, magari un vedovo, forse riesci ancora a trovarlo, e se lo trovi cosa gli metti in pentola, racconti e poesie?! Un giorno ti faccio una bella lezione sulle cose fondamentali in cucina, quelle tre quattro regole di base, anche il fritto, per dire, guarda qua, non è mica facile farlo croccante fragrante asciutto! Vieni, vieni a sentire quant’è buono, vieniiii, si fredda, dai su su su, veloceee… –
– Sì, sì, sì, arrivo, arrivo, arrivo!… -, mi resta solo una cosa da fare, basta che taci!
Mi manca la busta con i dati personali. Il racconto l’ho scritto (di notte, il solo momento di pace, un tempo rubato, neanche scrivere fosse un atto criminale). Ora devo sbrigare le faccende burocratiche. Vorrei tanto avere un segretario che si occupasse di queste cose. Forza e coraggio, iniziamo. Il foglio con i dati lo intesto così: Concorso internazionale di scrittura femminile. Grassetto, corsivo.
Beh, io oggi non mi sento né internazionale né molto femminile: indosso una tuta infeltrita degli anni ’80; ho i capelli dritti come spaghi, la frangetta storta, tagliata da me medesima in una sera di sconforto tricologico; sono pallida come un cencio; ed infine, è vero, è vero quel che dice la mamma, sono quasi vecchia, e da me ci si aspetta che rimanga zitella o che trovi un vedovo.
A ben pensarci, mica me lo dicono solo adesso. È da quando andavo all’università che mi si spinge a valutare questa ipotesi. Anche la zia Poldina (pace all’anima sua) lo diceva sempre. Mi guardava e sospirava “Tu potresti al massimo trovare un vedovo…”. Tanto cara, la zia, un toccasana per l’umore di una ragazza. Non sono una gran bellezza, ma neanche una pattumiera. Non so per quale motivo mi abbiano sempre considerata così poco favorita dall’amore. Purtroppo però, hanno avuto ragione.
– Le zucchineeee!!!… E ci son da portare in tavola le bevande, vai tu nel frigo, acqua frizzante, mi raccomando, che mi fa bene e mi fa digerire, e poi prendi un po’ di vinello, anche tu dovresti berne un po’, sei smunta, il vino fa sangue…
Rileggo un momento il bando di concorso, tanto per essere certa di non aver commesso errori, fraintendimenti, baggianate. Mica è facile concentrarsi, con la mamma che chiacchiera a ciclo continuo.
Dunque, il racconto deve contenere cinque delle seguenti parole: tempo, chiave, donna, bicicletta, viaggio, pentola, notte. Io le ho messe tutte, melius abundare. Non è stato facile, però.
Per inserire la parola bicicletta mi sono dovuta inventare un arzigogolo di situazioni che non sento naturale descrivere, perché io non so andare in bicicletta. E anche questa, se vogliamo, è una cosa che ha segnato un po’ il mio destino. La bicicletta è sinonimo di libertà, dinamismo, letizia, una gita con gli amici (amici che ti sbirciano le gambe tornite e belle… e poi magari uno di loro le sbircia un po’ di più e da cosa nasce cosa…).
– Tu devi imparare a friggere! Non dare assolutamente per scontato che sia facile, basta un niente e ti ritrovi con zucchine e melanzane mosce e unte, il segreto è…
I lavori presentati devono essere in lingua italiana o in altra lingua purché accompagnati da traduzione in italiano. Oh beh, solo in italiano so scrivere. Non che non abbia studiato, eh, anzi. Inglese, francese, sloveno, giapponese. Corsi su corsi, a scuola, al liceo, pomeridiani, serali, alle associazioni CulturaDonna, DonnaOggi e Donnadomani, all’agenzia di viaggi Donne nel Mondo, al circolo Futurodonna, ma poi mi ero stancata perché c’erano solo… donne, e non c’era alcuna possibilità di incontro. Allora ne ho seguiti altri, organizzati dal Circolo del dopolavoro Metallurgici, dall’associazione Carpentieri&Falegnami, ma a dire il vero nemmeno quelli sono serviti a facilitare svolte romantiche nella mia esistenza. Comunque, studia di qua, studia di là, a me di queste lingue non è rimasto niente. In francese so dire soltanto “Une soupe à l’oignon, s’il vous plaît”, in sloveno “Koliko je ura?”, in giapponese “Otearai wa doko desu ka?”. Posso cibarmi di zuppa di cipolla a Parigi, sapere che ore sono a Lubiana e fare la pipì a Tokyo. Quando si dice avere il mondo in tasca.
In inglese mi arrangio un po’ di più, eppure ogni tanto vengo assalita da mostruosi vuoti di memoria. Un turista americano, l’aria smarrita e la cartina in mano, un giorno mi ha fermata per chiedere informazioni. Avrei dovuto dirgli di svoltare a sinistra ma “svoltare” e “sinistra” erano precipitati in un abisso oscuro degno della demenza senile. Allora l’ho preso per le spalle (e che spalle, mi permetto di aggiungere), l’ho sistemato nella giusta direzione, e gli ho detto “Go straight along!”.
La partecipazione al Concorso è gratuita. Meno male, ché di questi tempi faccio la formichina, metto via ogni soldo. Sto risparmiando per comprare casa. Voi direte che è tardi. No no no, non è mai troppo tardi! È il mio motto, la mia religione. Ci credo fermamente. Oh, sì, andrò a vivere da sola e, con fermezza gentile ma ferrea, lo comunicherò alla mamma. Farò quel che mi pare, starò senza mangiare o sbocconcellerò un panino accanto al computer, mentre le idee mi ronzano indisturbate nella testa, senza sentire
– Le zucchineeee!!! Fai presto!
Me ne starò in un silenzio ovattato. Leggerò, scriverò, con puntine colorate attaccherò biglietti d’appunti su una lavagna di sughero con idee guizzi personaggi storie e altre meraviglie che qui devono giacere nascoste e incomprese. La mia casa, i miei libri, un divanetto, una luce ben direzionata, un tempo brullo tutto mio, romanzi russi divorati come niente fosse, senza sensi di colpa né distrazioni.
– A tavolaaaa…
Il Concorso si articola in due sezioni: la sezione generale e quella dedicata ai racconti scritti dalle donne detenute. Se penso alla mia mamma che mi chiede “Dove sei? Cosa fai? Dove vai? Quando torni? Non fare tardi. Non uscire, e se esci torna subito. E se non torni subito, chiamami, fammi sapere che sei viva, che non ti hanno rapita, che non ti sei sentita male, che non sei rimasta coinvolta in una catastrofe edilizia o un omicidio stradale. E se sei appena tornata, perché adesso esci di nuovo? Con chi vai? Chi ti aspetta? E come ti sei vestita? Avrai caldo, avrai freddo, così conciata prenderai il mal di gola, la tosse, il raffreddore, la broncopolmonite, la tisi!”- ecco, se penso alla libertà che mi è concessa dalla mia mamma, credo che a tutti gli effetti potrei partecipare anche nella sezione ‘donne detenute’.
Far pervenire l’elaborato entro il… entro domani! Anche questa volta non sono riuscita ad organizzarmi e arrivo trafelata all’ultimo minuto utile. Domani pomeriggio, dopo il lavoro, correrò all’ufficio postale col mio plico nella borsa e salirò lo scalone emozionata come una bimba. Non smetto mai di sperare, non smetto mai di trepidare, non smetto mai di credere che la vita sia piena di sorprese e di incanto. A volte non so se questa catena di immarcescibili sogni sia la mia sorgente di grazia o la mia fonte di inesauribile disperazione.
Mi dirigerò verso lo sportello dove c’è l’impiegato che mi porta fortuna. Ogni volta che ho spedito con lui, ho vinto qualcosa: una segnalazione, un primo premio, un secondo premio, qui e altrove, anche un premio speciale della giuria all’associazione culturale Lu muttu anticu in un comune sperduto nei Monti Nebrodi. Roba che per andare alla serata di gala, ho dovuto prendere un aereo, tre treni, due autobus, e farmi tredici chilometri a piedi perché l’asinello (ultimo mezzo efficace) aveva una colica e il signor Masiddu non me lo poteva noleggiare. Andare ai premi letterari a volte è un’avventura, cosa credete?
Insomma, quando alle spedizioni c’è lui, io vinco sempre. E quindi lo cerco, lo desidero, lo bramo. Guardo tutti gli sportelli finché lo trovo: simpatico, maturo, addome prominente su cui va a poggiarsi placida la targhetta identificativa appesa al collo, occhiali, leggerissima seducente balbuzie: “Oh, un altro co-co-co-concorso letterario? Co-co-co-complimenti”. Mi conosce, mi stima, mi chiede se si tratta di racconti o di poesie, da quanto tempo scrivo. Gli piaccio, ne sono certa. E anche lui, lo confesso, non mi è del tutto indifferente.
“Il concorso scade oggi! Il plico parte subito, vero?”, gli chiedo ansiosa.
“Se-se-sempre all’ultimo mo-mo-momento, eh?”, dolcemente mi rimbrotta.
Un giorno, passeggiando in centro, l’ho visto in compagnia della moglie. Ci sono rimasta un po’ male. Ma osservandoli più attentamente, ho concluso che non erano affatto felici.
Nome e cognome dell’autrice… Il nome, il nome. A volte non lo ricordo più. Nessuno mi chiama per nome. Tra colleghe ci diciamo “ehi” e per la mamma sono ancora bambina mia, ragazza mia, figliola mia, e anche se talvolta mi irrita, sarà terribile e vuoto il giorno in cui non sarà più lì per dirmelo. Qual è, qual è? Mi vien da piangere a pensarmi così sideralmente distante dal mio nome. Eppure, questa lettera di dati personali la devo compilare. Scrivo il nome che sta sui documenti. Ma un nome, per esistere, ha bisogno dell’amicizia, ha bisogno dell’amore. Quando qualcuno, guardandomi negli occhi, lo dirà (preferibilmente sottovoce) – allora, solo allora, il mio nome sarà vero.
Scrivere il cognome, poi, mi lascia desolata. Per un momento, mi sento persa, poverissima. Ne ho solo uno! Un po’ buffo, breve, due sillabe. Nessuna architettura di particelle nobiliari né di altoborghesi testimonianze. Mi lasciano di stucco le signore dei circoli culturali, tutte con qualche cognome in più del loro. Due tre quattro. Usano i cognomi come un maestro yogi usa la meditazione, per levitare leggiadre sopra le pene del mondo. Ma io in questo mondo mi ci voglio reggere in piedi da sola, sulle mie gambe e sul mio cognome. Mio padre era un maestro elementare, mio nonno un operaio, il bisnonno un sagrestano, il trisavolo un contadino. Il mio cognome è il loro, la loro carne è la mia. Siamo legati da un cognome semplice e quieto, un filo che ci lega e ci salva, che sporca le mani (di gessetto, di fabbrica, di sangue di Cristo e di terra) e le mani sporche sono mani sante. Il senso di inadeguatezza mi dura giusto un istante. Ecco, già mi sento orgogliosa, e scrivo il mio umile cognome come la parola più bella su questo foglio.
Recapito telefonico… Metto il cellulare? Ma sì, me lo porto sempre dietro, e attenderò la chiamata della giuria come attendo le chiamate di tutti, sempre. Ci sentiamo presto, mi dicono, in ogni circostanza. Ci si scambia il numero con un’allegria rancida, le stesse frasi ripetute sempre. “Ti faccio uno squillo, così mi memorizzi”. Ecco, bravi, memorizziamoci, che tra un’ora avremo già dimenticato questa nostra illusoria amicizia. Ciascuno sarà riavvolto dalla propria vita e non ci sarà tempo per rivedersi nemmeno per un caffè. Tre-tre-otto…
Il titolo dell’opera… Anche questo mi crea una serie infinita di dubbi e ripensamenti. Il mio racconto parla di…
– … insomma, se non vieni immediatamente a tavola, mi metto a piangere! Sono vecchia, presto morirò, ho bisogno di compagnia, ho bisogno di mia figlia, quel computer dannato sta rovinando il nostro rapporto, io non ti conosco più, non ti vedo, e le zucchine sono fredde!
Va bene, tagliamo corto. Titolo dell’opera: ZUCCHINE.
*
Sono andata all’ufficio postale. Lui non c’era. L’ho cercato in tutti gli sportelli, ma proprio non c’era. Ho spedito lo stesso, naturalmente, ma con una spina nel cuore: la consapevolezza che non vincerò, non vincerò niente. Senza di lui – lui, la mia chiave d’accesso alla fortuna, lui che appiccica il codice a barre della raccomandata con le sue dita benedette – nulla di buono potrà accadere.
Mi sono fatta coraggio e ho chiesto informazioni.
– Non c’è il signor…?
– No.
– … è in ferie?
– No, purtroppo no.
– …?
– … è rimasto vedovo qualche giorno fa.
– Ah sì??!
Il racconto deve avere un lieto fine.
Lo avrà.